Mi sento personalmente interpellato dalla riflessione di Gaetano Azzariti sull’«ultimo strappo» nel rapporto governo-parlamento in occasione del varo della recente, tormentata legge di bilancioSegnatamente, mi sento interpellato dalla sua conclusione: «Se qualcuno si è reso conto di essere andato troppo avanti ne siamo felici. Meglio tardi che mai. È questo l’indirizzo di politica costituzionale che ha tenuto unite le passate maggioranze e ha permesso l’ultimo misfatto». Che si sia trattato di «strappo» è indubbio. «Ultimo» in due sensi: perché spinto all’estremo e perché culmine di un trend di lungo periodo, circa un ventennio. Azzariti ha ragione: chi oggi mena scandalo dovrebbe riconoscere che, più o meno, da gran tempo, nella sostanza, le cose sono andate così.

Sulla scorta della mia quasi ventennale esperienza parlamentare, posso confermare che il maxiemendamento alla finanziaria sul quale il governo appone la fiducia mortificando il parlamento è diventato la regola. Le giuste e sdegnate proteste levate oggi dall’opposizione dovrebbero essere accompagnate da tale onesta ammissione circa il passato.

Vorrei raccogliere l’appello di Azzariti all’onestà intellettuale facendo autocritica, per la mia parte, ma, insieme, chiedendo di contestualizzare i giusti rilievi. Insomma invocando qualche attenuante. All’origine di un nuovo, alterato equilibrio tra parlamento e governo sta l’opzione per un modello di democrazia maggioritaria (con elementi di democrazia d’investitura) che data all’incirca all’inizio anni Novanta.

VI FU CHI FECE del maggioritario una sorta di religione. Ma vi fu anche chi, più laicamente, sposò quel modello mirando a obiettivi politici non privi di qualche buona ragione: semplificare un sistema politico troppo frammentato, sbloccare una democrazia che non conosceva una fisiologica alternanza, contrastare opache pratiche consociative tra vertici di partiti ridotti a ectoplasmi, che già poco avevano a che fare con i partiti storici che avevano forgiato la democrazia italiana.

L’idea di dare ai cittadini-elettori un di più di potere nel concorrere, seppur mediatamente, alla scelta dei governi muoveva dalla constatazione che quei «reperti» di partito fossero più un filtro che non un tramite della partecipazione a determinare gli indirizzi della politica nazionale, come recita l’art. 49 della Costituzione. A ben riflettere, a spingere in tale direzione, vi fu anche una ragione politica.

Da un lato lo sviluppo, con Berlusconi, di una destra prima latente che, per sensibilità e cultura, non disdegna la verticalizzazione del potere in capo all’esecutivo; dall’altro una sinistra che, nel 1996, finalmente, dopo mezzo secolo, assumeva responsabilità dirette nel governo nazionale e che, quasi in preda a una furia riformatrice, comprensibilmente, scopriva la suggestione della «democrazia governante e decidente».

CORREGGENDO la sua tradizionale politica costituzionale di stampo parlamentarista. Quasi fosse il corollario necessario di un beninteso primato della politica rispetto ad altri poteri, a cominciare da quelli economici. Rammento che un maestro del diritto costituzionale nonché attore politico di quella stagione come Leopoldo Elia, certo non sospetto di cedimenti sull’impianto parlamentare della nostra democrazia, tuttavia temperò la locuzione «centralità del parlamento» nel descrivere il nostro sistema istituzionale.

Più modestamente, da deputato di lungo corso, standoci dentro, non posso non testimoniale che norme, consuetudini e concrete prassi parlamentari spesso alimentano anche nei più convinti parlamentaristi un senso di frustrante inconcludenza. Penso all’inflazione di leggine di dettaglio e, all’opposto, all’assenza della grande legislazione, di quadro e di indirizzo; penso alle sedute estenuanti dell’aula nell’esame di testi complessi ma non adeguatamente istruiti in commissione; penso a quando lo stesso pur contratto esame della legge di bilancio propiziava non già un miglioramento/arricchimento di essa, ma l’assalto alla diligenza di lobby grandi e piccole. Al punto da condurre Tonino Maccanico, uomo di istituzioni, già segretario generale di Camera e Quirinale, ad apprezzare il modello inglese nel quale la finanziaria è pressocchè inemendabile.

FACCIO MEMORIA di questo non per confutare la sostanza della tesi di Azzariti, non per invocare giustificazioni, ma per contestualizzare il problema e favorire la comprensione di un processo che, sia chiaro, ne convengo, va stigmatizzato e corretto. Su un punto invece dobbiamo essere franchi: se disgraziatamente fosse passata la riforma costituzionale Renzi-Boschi la cui ispirazione ipermaggioritaria e centralistica avrebbe a dismisura alterato l’equilibrio tra maggioranza/governo e parlamento tutto a vantaggio dei primi oggi le cose sarebbero vieppiù allarmanti. A proposito di onestà intellettuale: sarebbe lecito attendersi dai 5 stelle, fieri oppositori di quella riforma a difesa degli equilibri costituzionali, comportamenti opposti a quelli praticati ora da postazioni di governo e, rispettivamente, dal Pd una leale autocritica su una cattiva riforma di cui oggi sono più chiare le contraddizioni e le insidie bonapartiste.