I suoi putti paffuti e candidi come la panna se ne stanno sul limitare di scale ombrose, che precipitano giù verso gli inferi. Non luoghi della letteratura e la leggenda, ma quelli veri, i sinistri sotterranei cui si accedeva dopo tortuosi percorsi nel buio, stanze di spurgo dei cadaveri, dove la carne si mondava della sua vita terrestre, facendosi scheletro. Accadeva sotto molte chiese e lo scultore Giacomo Serpotta, con la sua militanza piena nelle confraternite palermitane, era allenato alla frequentazione di quegli antri, resi scivolosi dai liquami. Contrapponeva, al piano di sopra, nella luce contrastata, i suoi amorini sorridenti e grassottelli, esorcizzando la fine umana in vaporose scene realizzate con lo stucco, materiale a cui cambiò destinazione d’uso. Lo trasformò da rifinitura povera e popolare a decorazione acrobatica, in grado di tessere storie rimanendo abbagliante, senza piegarsi alle tonalità febbricitanti di certi marmi. E ci riuscì grazie alla sua grande perizia, retaggio di una antica famiglia d’arte – il padre Gaspare, il fratello Giuseppe, la madre discendente da marmorari e poi sarà la volta del figlio Procopio.

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LÌ, NEGLI ORATORI SICILIANI della devozione, delle assemble pubbliche e del pentimento per condannati senza appello, Serpotta creava un fervore tutto suo, animando in modo dionisiaco moltissime figure e sconfiggendo così il rigor mortis. La sua arte rivela una Palermo segreta, quasi misterica, che rimuove l’infanzia violenta delle strade a favore di un brulicare danzante di stupori, mani e gambe tornite, abbracci sensuali con matrone, sguardi intrecciati.

A fine Seicento, quando il caldo palermitano non offriva requie, dentro le chiese si spandeva il refrigerio visivo degli stucchi serpottiani. Luca Scarlini, autore del libro-scrigno Bianco tenebra. Giacomo Serpotta, il giorno e la notte (Sellerio, pp. 168, euro 12) parte da qui, da quella polarità di presenza / assenza di luce, che viene affrontata come fosse una lotta eterna, profondamente personale, in ogni opera dello scultore. D’altronde anche il suo ritratto (attribuito a Gaspare Serenario) racconterebbe questa sfiancante battaglia quotidiana: profilo affilato e immersione – con i suoi strumenti di lavoro – in un ambiente esploso, abitato da brandelli di corpi. Scarlini, con scrittura felice, insegue la seduzione di statue del colore dell’alba e offre loro una nuova esistenza, questa volta anche letteraria.

A LUNGO DIMENTICATO, rimasto a mangiare polvere, Serpotta fu riabilitato da un altro squisito conterraneo, l’architetto del Liberty Ernesto Basile, che rivendicò l’eleganza dello scultore additandolo come primo tra i moderni. Il Settecento tornò a parlare una lingua amata: le eccentriche statue serpottiane, dal canto loro, avevano resistito (con qualche malanno) a terremoti, incendi e guerre. Avevano conservato tutta la forza necessaria per colonizzare l’immaginario dei visitatori stranieri. E non solo: cominciarono a far gola anche ai ladri che si diedero a una sciagurata opera di sottrazione di putti da quei teatrini svolazzanti.