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La morte nella luce così fredda: Lo Savio

La morte nella luce così fredda: Lo SavioFrancesco Lo Savio al lavoro sui «Filtri» nello studio, Roma 1961

La mostra di Francesco Lo Savio al MART di Rovereto, a cura di Lucchesi, Salvadori e Venturi La sua antimateria guarda all'Europa, ma anche a Burri. Viene rivelata per la prima volta una segreta matrice fisiologica dell’artista

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 17 dicembre 2017

«Disperato amico mio», suonano le ultime parole di Emilio Villa su Francesco Lo Savio negli Attributi dell’arte odierna. Parole profetiche: pensando al suicidio, nel settembre del ’63 a Marsiglia, dell’amico ventottenne. Lo aveva presentato su «Appia antica» nel ’59, Villa, e l’anno seguente lo aveva invitato a una collettiva con Angeli, Festa (fratello di Lo Savio, di lui minore di tre anni), Schifano e Uncini. Ma, fra le tante rabdomantiche intuizioni di Villa, i registri da lui impiegati in quell’occasione parevano, sino ad oggi, del tutto fuori fuoco. Lemmi standard cui avesse fatto ricorso, come talora gli capitava, in «automatico». Nulla a che vedere, con le «larve biologiche» e le «falde cellulari» di Villa: in quella figurazione così fredda, rarefatta, severamente geometrica. Non è un caso che quando, il 30 novembre del ’62, Lo Savio porterà alla Salita di Gian Tomaso Liverani le sue Articolazioni totali – tre cubi di cemento bianco, con un interno nero suddiviso da piani ricurvi: enigmatici, sul pavimento buio, come tre monoliti sulla superficie lunare – quell’occasione si rivelerà un fiasco solenne. Niente di più distante, allora, dalla joie de vivre spumeggiante di colori della scuola di Piazza del Popolo; e infatti quei suoi coetanei, alla vernice, brillano per la loro assenza: tutti, compreso suo fratello Tano, rintanati al Caffè Rosati. Le foto ci mostrano, forse, non più di sette visitatori (alcuni di nome: Argan e Palma Bucarelli, forse Pierre Restany).

E davvero, visto retrospettivamente come ci consente di fare la bellissima mostra di Francesco Lo Savio al MART di Rovereto (a cura di Silvia Lucchesi, Alberto Salvadori e Riccardo Venturi, sino al 18 marzo), quel giovane così serio appare un alieno. Un Alloghenes (in questo senso, forse, i riferimenti alla gnosi del Villa che parla di «eone» e «pleroma») che gira coi grossi tomi dell’Uomo senza qualità sotto braccio (unico vero intellettuale del gruppo, lo ricorda Paola Pitagora nel suo Fiato d’artista). Un marziano a Roma, insomma. In quanto tale prima guardato con curiosità, poi scansato senza troppi riguardi. Per Lo Savio è una mazzata. Lo racconta Riccardo Venturi in una biografia di scintillante scrittura e non meno acuta penetrazione critica, che verrà pubblicata a febbraio da Humboldt Books. Lui, da sempre straniero, decide di levare le tende. La sua dimensione è l’Europa: ha già esposto col gruppo Zero (c’era anche Yves Klein, quella volta alla Salita), continua a farlo ad Amsterdam e a Leverkusen (dove Udo Kultermann lo aveva incluso fra i suoi Monochrome Malerei). A Roma pubblica un libro, Spazio-luce, del consueto nitore; ma ha capito che non è più il suo posto. L’estate del ’61 conosce una ragazza di Marsiglia, l’anno dopo la sposa. Nella sua città vede Le Corbusier e ne resta non meno folgorato. Si è sempre interessato d’architettura, ma ora proietta le sue idee su proporzioni più ambiziose; progetta, lui così poco mediterraneo, una Maison au soleil che finirà per essere lo scenario ideale di un addio che pare quasi un rituale: un sacrificio marziale, à la Mishima, sull’altare del modernismo. Era semplicemente arrivato troppo presto, Lo Savio (come Klein, morto 34enne nel giugno del ’62; come Piero Manzoni, 29enne nel febbraio ’63): di lì a poco, oltre Atlantico, si comincerà a parlare di minimal art e alcuni di quegli artisti (come Richard Serra, che gli dedicherà un suo lavoro) riconosceranno in lui un precursore. Mentre i suoi ipnotici Filtri sono parenti delle superfici abissali, minacciosamente attiranti, di quell’altra figura sacrificale che è Mark Rothko.

Eppure l’antimateria di Lo Savio, questa specie di buco nero dell’immagine (evidenti, nei suoi scritti, gli interessi scientifici), è anche in dialogo con la tradizione italiana recente. È Burri il riferimento più palese dei suoi Metalli: ben più asettici di quelle lamiere convulse, certo, che recepiscono pure, però, la lezione dei Gobbi: il Metallo parasferico, che Lo Savio definisce «leggermente afrontale», pare voler cogliere il punto di parallasse della superficie bidimensionale, l’istante esatto in cui questa s’increspa nella terza dimensione.

Ma soprattutto la mostra di Rovereto ci mostra un risvolto, di questa ricerca, sino a oggi del tutto sconosciuto. A Kultermann Lo Savio aveva consegnato i materiali per un secondo libro, che non si poté realizzare. Ma l’amico tedesco li conservò e prima di morire (nel 2013) li consegnò a Silvia Lucchesi: sicché appunti, disegni e altro, figurano ora esposti al MART. Fra questi stupiscono delle tavole anatomiche: flessioni vertebrali, del collo, delle spalle: articolazioni che rivelano una segreta matrice fisiologica, per non dire fisiognomica, di quelle forme così depurate. Un po’ come il topico albero di Mondrian, da Lo Savio infatti ammiratissimo, alle naturalistiche radici del suo proverbiale rigore ortogonale. In uno schizzo si vede una figura umana inscritta in una sfera, come l’uomo vitruviano di Leonardo (due anni dopo la morte di Lo Savio, Schifano lo ritrarrà sovrapponendo all’icona di Leonardo, proprio, un intrico di linee geometriche…).

Troppo tardi avevano capito, i fratelli coltelli di Piazza del Popolo, la natura umana, troppo umana, di quell’amico così diverso. E soprattutto non sbagliava Villa a divinare, in quell’esorcistica geometria, «il suo calvario»: a indicare, in quella luce così fredda, una «radice convulsa di morte». Da quella ricerca disperata lui, Lo Savio, non aveva trovato scampo.

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