Auguri ai morti. A quegli uomini, a quelle donne, a tutti quei bambini senza nome che giacciono nella bara d’acqua del Mediterraneo. Auguri a loro che non hanno potuto completare il viaggio. Auguri a quei fantasmi illacrimati, senza una tomba su cui un padre, una sposa, un figlio, potranno ricordare e piangere.

La morte illacrimata, ci dice Pasolini, toglie alla vita ogni senso, perché le impedisce di entrare nel ricordo e di rivestirsi di sacro. Senza il cordoglio, senza un lamento di fronte al corpo funebre esibito, la vita perde la sua necessità perché non può essere raccontata, non può tradursi in immagini e parole che la affidano al mito.

Nel pianto di un parente, di un amico, magari di una comunità, si ritrova invece la unità e compiutezza alle azioni singole e forse insensate. Il pianto cioè agisce come «un fulmineo montaggio della vita: sceglie i suoi momenti veramente significativi e li mette in successione, facendo del presente un passato chiaro, stabile, certo, linguisticamente ben descrivibile» (1967).

COME È DIVERSA PERCIÒ la morte di Ettore (solo, sul tavolaccio del carcere, senza che neanche Mamma Roma possa piangerlo), dalla morte di Cristo. La differenza è il pianto possibile di Maria, quel pianto che fa da sottotitolo al libro in cui Ernesto De Martino spiega come i singoli e le comunità possano superare il trauma della morte attraverso il lutto, «fondamentale lavoro umano attraverso il quale la vita biologica diventa un valore e quindi si pone come condizione necessaria per l’esplicarsi della eterna forza rigeneratrice della “cultura» (1958).

Con quel pianto l’anziana Maria, che potrebbe rimanere travolta dal tremendum che è la perdita reale del figlio, agisce con altre donne quel «teatro del pianto» (che accomuna tutte le madri addolorate del mondo), che non blocca il dolore per la perdita in un vuoto di esistenza, ma lo reagisce («abreagisce»), aprendo così «un’opzione per la vita» e «reintegrando l’uomo, anche il morto, nella storia umana» (Ivi).

ED È QUESTA IN FONDO la «buona novella» evangelica: che quel Cristo in croce – così come ogni altro povero cristo – non muore invano perché una lacrima raccoglie la sua storia affidandola a una memoria comune, a un canto popolare comune che mette in scena la «redenzione», la quale non è da intendersi come una fuga, un’andata improbabile nel Regno dei Cieli, ma come un acquisire qui, su questa terra, una grandezza eterna, «epico-religiosa», che potrebbe far diventare quella vita finita un modello, un esempio e un legame per tutti e fra tutti.

Avveniva così una volta nel mio popolo di «cafoni»: come la salsa, come la vendemmia, come le nozze, quel pianto rituale collettivizzato conteneva se non segni di un riscatto, almeno la volontà di una «presenza», di non farsi trascinare come vittime dalla storia.

DIETRO QUEL PIANTO, inoltre, c’erano i segni di quell’ethos meridionale e mediterraneo, che, ci diceva Alcaro, costituisce un paradigma morale e politico di civiltà superiore, formandosi sui valori universali del soccorso, della pietà, della persistenza della memoria e del dialogo con i defunti (199l).

Auguri quindi ai vivi , perché sappiano tornare a piangere. Auguri perché vogliano riconoscere, perché sappiano seppellire.

Solo così noi vivi, che nella mancanza di pietà siamo dei morti, restiamo umani. Perché la parola umanità e il valore dell’umanità risiedono proprio in questo: nell’accogliere la vita, nell’ospitarla, curarla, riscaldarla, nutrirla; ma anche nel saper «inumare» ossia restituire il corpo alla terra per dare nome e identità e memoria anche alla morte.

PROVA A FARLO OGGI una donna, un medico, che vuole dare un nome ai migranti che muoiono nel Mediterraneo (secondo le stime dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, sono 40mila dal 2000 e il 65 per cento non ha nessuna identità). Lei, mediterranea di Milano, assieme alla Croce Rossa, chiede che si organizzi una rete a livello internazionale che aiuti a riconoscere le persone scomparse.

Una richiesta che si è fatta impellente dopo la strage di Lampedusa. In quell’occasione, incaricata di fare l’autopsia, si è accorta di come quei 728 morti potevano trasformarsi in cose o ridiventare persone.

Ne  I diritti annegati – in cui fra l’altro emerge il quadro giuridico che obbliga ogni Stato a fare tutti gli sforzi necessari per identificare i morti in mare e a darne conto alle famiglie – racconta di questo bivio partendo dagli oggetti recuperati nelle tasche, dai vestiti, i foglietti di carta, le lettere, le fotografie, le facce di madri, di mogli, di figli, le pagelle scolastiche, i sacchetti di plastica che molti portano al collo, pieni di una manciata di terra, la loro terra.

SONO OGGETTI DA CUI PUÒ venire fuori la vita stessa di quelle persone, le loro speranze e quello che pensavano di costruire partecipando ad un movimento di popoli, alla Storia.

Saperli leggere, organizzarli per una identità e un nome, significa strapparsi a un’incuria verso i morti che parla del fatto che non li consideravamo uguali a noi neanche da vivi.