Ci sono gesti che rimangono impressi nella memoria laica e civile di un Paese e in qualche modo, persino in circostanze disperate, gli impediscono di disperare fino in fondo e sprofondare. Uno di questi gesti d’intenso coraggio civile, sicuramente, va ascritto a un religioso, ossia all’allora arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi scomparso ieri a Triuggio, paesino brianzolo non troppo distante da quel di Renate, dove era nato il 14 marzo di ottantatré anni fa.

Piccolo di statura, mite di carattere, semplice e colto per oltre venticinque anni docente di etica con un occhio attentissimo alle questioni emergenti (dalla biotecnologie al gioco d’azzardo come addiction sociale veicolata da istituzioni corrette, su cui ha scritto molto e da pioniere), Cardinale Tettamanzi, che era stato ordinato sacerdote il 28 giugno 1957 da un’altra figura di assoluto rilievo, Giovanni Battista Montini, non aveva esitato a contrapporre la sua imponente statura morale alla piega particolarmente triste che, nel primo tratto del nuovo secolo stava prendendo il discorso su immigrazione e intercultura a Milano e nel resto del Paese.

L’altro, allora, era tipizzato nella figura del «rom» o dell’«islamico», come oggi lo è in quelle forse ancor più generiche dell’espulso (displaced) o del migrante. Tipologie grezze, ma efficaci nel discorso politico che puntava (e tuttora punta) a una capitalizzazione regressiva del rancore. E poiché la bestia populista si aggira sempre con rabbia attorno alle oasi di condivisione e di senso alle quali non ha accesso, lo scontro si fece presto molto duro, degenerando in una frattura istituzionale forse mai davvero sanata.

Davanti a una questione che interrogava il vivere prima ancora che il convivere sul tema «epocale» delle migrazioni e del rapporto fra alterità e cultura, Tettamanzi però non si astenne dall’usare toni molto chiari e inusuali per la Chiesa del tempo. Lo fece nella sua omelia per la solennità di Sant’Ambrogio, del 7 dicembre del 2009. «Un pastore – disse – non si allea col lupo. Un pastore si occupa del suo gregge». Se Ambrogio vedeva i lupi negli eretici, il richiamo fatto in un clima culturalmente e politicamente teso, preludio a quello tesissimo odierno, venne letto – e possiamo ben dire: a ragione – come un monito contro coloro che chiedevano anche alla Chiesa, ossia all’istituzione diaconale per eccellenza in Occidente, di «tutelare la tradizione dell’Occidente». Come? Escludendo, ossia rinunciando a quel servizio (diaconia) che è il suo stesso fondamento. «È un vescovo o un imam?», aveva allora titolato il quotidiano La Padania. Le parole di dell’allora Ministro Calderoli seguirono a raffica: «Tettamanzi con il suo territorio non c’entra nulla. Sarebbe come mettere un prete mafioso in Sicilia. Perché non è mai intervenuto in difesa del crocifisso? Perché parla solo dei rom?».

Gli scontri verbali lasciano il tempo che trovano, ma l’aria del tempo la cogliamo in quegli scontri meglio che altrove. E a quell’aria Tettamanzi ribatté con la lettera alla metropoli di quell’anno, titolata Milano torni grande con la sobrietà e la solidarietà. Leggerla o rileggerla ora dà il segno di chi è stato Dionigi Tettamanzi.

Per Tettamanzi, c’era e c’è bisogno di una sorta di nuova alleanza fra «le istituzioni pubbliche e le forze vive della società civile», una solidarità temprata dalla sobrietà, per sconfiggere uno dei mali che più affliggono il vivere odierno, la solitudine, e sfuggire al narcisismo etico che pregiudica gran parte dell’agire umanitario. Nella legatura sociale della solidarietà, improntata sul dovere, Cardinale Tettamanzi vedeva delinearsi i tratti della giustizia, ogni oltre formalismo e ogni schematizzazione.

L’etica, al pari dell’economia, non consente mai un semplice rifiuto. Necessità, al contrario, un confronto, anche duro e serrato con i suoi dilemmi. Per questa ragione, nelle sue omelie alla città, nel suo lavoro «sul campo» oltre che in quello di ricerca, Tettamanzi si è confrontato con gli avamposti d’assedio più radicali del vivere urbano: flessibilità, delocalizzazione, iniquità fiscale diseguaglianze materiali, violenza. Che cosa contrapporre a queste derive? Solidarietà, ma in una versione che solo chi si facesse trarre in inganno dal suo «parlar mite» ascriverebbe semplicisticamente alla categoria «buonismo». Al contrario, Tettamanzi invitava a cogliere il conflitto anche quando si configura come conflitto di solidarietà fra esclusi e rischia una capitalizzazione populista. La solidarietà, allora, «riveste, dal di dentro, i tratti del dovere. È un aspetto che viene sottolineato con forza – vale la pena di ricordarlo – anche dalla nostra stessa Costituzione. Si dà dunque uno stretto legame tra i diritti umani – riconosciuti in quanto nativi e precedenti allo stesso ordinamento giuridico e perciò inviolabili – e i doveri, dichiarati inderogabili, pertanto anch’essi indisponibili a chiunque. È questo il grande patto sociale che mantiene coesa una città, una nazione. Qui è in gioco una virtù cardinale, è in gioco la giustizia!». Per questo, insegnava, «occorre presenza nel presente» ossia un ancoraggio nello statuto dei doveri, non solo dei diritti civili slegati da ogni concretezza materiale. Se la verità, insegnava Kierkegaard, è sempre il «come» della verità, ossia la sua declinazione nel concreto, è a questo «come» della giustizia, della solidarietà, del dovere che Tettamanzi ci ha insegnato a guardare.