Perché Giulio Regeni ha fatto questa fine orrenda? La spietatezza e la brutalità del regime egiziano erano ben noti ai giornalisti, ai ricercatori, ai professori universitari e a chiunque abbia vissuto per un certo periodo in Egitto. Molti giornalisti freelance hanno rischiato la vita nelle sommosse e nelle manifestazioni di piazza durante la Primavera Araba. Ma è con il massacro dei Fratelli Musulmani in piazza Rabaa Al Adawaya del 14/08/13 che la situazione in Egitto è andata precipitando, sotto il regime di Al Sisi le condizioni per i giornalisti e gli attivisti egiziani e stranieri sono diventate pessime, molti hanno abbandonato il paese dopo essere stati pedinati e fermati in strada, dopo perquisizioni in casa e fermi in commissariato per ore.

Ma morire così violentemente ad opera delle torture della polizia o dei servizi segreti egiziani come probabilmente è accaduto a Giulio Regeni era una possibilità alquanto remota per un occidentale. Purtroppo in Egitto esiste una netta differenza in base alle nazionalità: se fosse successo ad un africano o ad un egiziano non avrebbe avuto tanta eco nei media internazionali.

Ma perché sono arrivati ad infierire in questo modo sul corpo di Giulio? Senza dubbio conoscevano la nazionalità della vittima, ed erano coscienti della risonanza mediatica alla quale andavano incontro. Quindi che cosa si cela dietro quest’atto meschino e inumano? Sicuramente hanno avuto un ruolo fondamentale le lotte intestine (che esistono dai tempi di Nasser) dei tre apparati statali che controllano il paese (polizia, servizi segreti e forze armate) per ottenere maggiore potere ed influenza sulle decisioni politiche. Il 22 gennaio scorso Eric Trager su Foreign Policy descriveva questa dinamica conflittuale. Sempre secondo Trager alcuni anchormen della tv statale, controllata dai servizi segreti, hanno criticato apertamente l’operato di Al Sisi. FP afferma che i militari sarebbero scontenti di come il presidente stia affrontando il terrorismo nel paese, e sarebbero delusi di come stia affrontando la persistente crisi economica che sta affossando il paese. Quindi Giulio Regeni potrebbe essere stato la «vittima sacrificale» del conflitto tra i tre apparati egiziani per screditarne uno, molto probabilmente i servizi segreti.

L’altra ipotesi sulla morte di Giulio, analizzata più volte da Giuseppe Acconcia sul manifesto, è che sia stata un monito per tutti gli studiosi e i giornalisti occidentali che ficcano il naso dove non dovrebbero offuscando così l’immagine dell’Egitto all’estero.

La polemica per la pubblicazione dell’articolo post mortem di Giulio da parte de il manifesto è stata ben affrontata con una risposta molto esaustiva con l’editoriale di Tommaso Di Francesco del 15/02/2016. Alcuni su FB hanno affermato che la redazione di via Bargoni aveva spinto Giulio ad inoltrarsi in ambiti pericolosi, quelli appunto dei sindacati e dei movimenti operai, senza un’adeguata preparazione che gli consentisse di capire il pericolo. Questa asserzione è stata smentita da numerose fonti: infatti sarebbero stati i supervisori di Cambridge a impegnarlo in questa direzione. Il manifesto è sempre stato sensibile alle condizioni operaie e sindacali e le ricerche di Giulio in Egitto vertevano proprio su questi argomenti che erano quindi pubblicabili ma da contestualizzare. Come collaboratore freelance di Alias (il settimanale culturale de il manifesto) ho inviato dall’Egitto alcuni reportage sul movimento degli attivisti egiziani che nella maggior parte dei casi non venivano pubblicati immediatamente, spesso passavano settimane. Attraverso l’articolo di Di Francesco la redazione de il manifesto ha ritrattato alcune posizioni che aveva preso nel caso di Regeni e si è scusato apertamente con la famiglia. Tale atto, raro nel panorama giornalistico, rende onore al manifesto che ha mostrato di saper ascoltare le opinioni e le supposte critiche.

Perché è sempre stato un giornale di discussione ed approfondimento, con le diverse anime che si esprimono sulle colonne della stessa animando il dibattito, pubblicando i diversi punti di vista anche se agli antipodi. In un certo senso il manifesto è stato un precursore dei social: un «muro di carta» sul quale diverse opinioni ed interventi confluivano, e confluiscono, dando voce e spazio a persone e storie che rimarebbero sconosciute all’opinione pubblica.

Per fare in modo che Giulio non sia morto invano, ora il manifesto deve continuare a perorare, come d’altronde sta già facendo, la causa di quei 40.000 e oltre prigionieri politici che quotidianamente subiscono torture, sevizie e violenze di ogni genere nelle carceri egiziane. Deve continuare a fare pressioni sul governo italiano e sulla Commissione europea per fermare la politica repressiva del potere cairota, perché i servizi segreti, la polizia e i corpi paramilitari egiziani sono alla stessa stregua dei macellai dell’Isis. I metodi repressivi di Al Sisi, che diventano una fucina per futuri jihadisti, non si discostano di molto da quelli che sono stati di Pinochet e di Videla in America Latina. Se oggi si criticano quei regimi e tanto ci si indigna per quei massacri di allora, altrettanto si dovrebbe fare per quello che sta accadendo in Egitto, proprio per il rispetto dei diritti e della dignità umani che l’Occidente sbandiera al mondo intero.

I governi occidentali hanno appoggiato in passato regimi dittatoriali spietati in Medio Oriente contribuendo alla situazione attuale di caos nella regione. Alla luce degli eventi degli ultimi 15 anni, i risultati della guerra in Afghanistan e in Iraq, come le prigioni di Guantanamo e di Abu Ghraib non hanno sortito altri effetti se non l’instabilità totale nel Medio Oriente e l’insorgere dell’Isis e di centinaia di cellule terroristiche.

I giovani egiziani che il 25 gennaio di cinque anni fa chiedevano pane, giustizia e libertà sono stati traditi per l’ennesima volta dai governi occidentali che hanno chiuso gli occhi sulla repressione violenta, sui sequestri, sulle sparizione e sulla reclusione forzata di migliaia di egiziani ignorando i report di Amnesty Internazional e di Human Rights Watch.

Nel nome di Giulio Regeni bisogna portare avanti la battaglia mediatica per tutti i desaparecidos egiziani e il manifesto deve continuare a denunciare, come già fa, quei governi che per mero opportunismo economico e politico appoggiano i «terrorismi di Stato».