Non solo per la redazione de il manifesto, ma per tutti i lettori e per tutti coloro che ne avevano chiesto e gridato il rilascio dai sequestratori, la gioia per la liberazione di Giuliana Sgrena a Baghdad fu ombrata dal dolore per la morte di Nicola Calipari, il funzionario dei servizi che a un passo dall’’aeroporto, e quindi dalla libertà per la nostra Giuliana, fu ucciso da una pattuglia americana facendo scudo a lei con il proprio corpo. Già poco tempo dopo quella sera drammatica, due giovani attori decisero di impegnarsi a raccontare quella «storia», sulla scena. Per restituirne l’emozione, e per cercare di far luce su un mistero così doloroso, rimasto tale, senza responsabili nonostante inchieste e indagini.

Quel discorso teatrale e civile non è rimasto fermo, perché i due attori, Fabrizio Coniglio e Alessia Giuliani, assieme alla stessa Giuliana, hanno continuato un lavoro di informazione e sensibilizzazione, soprattutto tra i ragazzi nelle scuole, che ha permesso di riempire l’altra sera il teatro Argentina non solo di pubblico, ma  anche di emozioni e riflessioni su un ennesimo buco nero della recente storia italiana, e sulla figura di un servitore dello stato e della comunità. Senza retorica, ma solo con i fatti e le testimonianze che si sono aggiunte al termine dello spettacolo, è uscito fuori un «ritratto» di Calipari che inizia a rendergli giustizia, e meriti.

Il racconto dello spettacolo di Coniglio e Giuliani ha un titolo programmatico: Il viaggio di Nicola Calipari. E scorre lineare e nervoso, col ritmo secco delle informazioni che arrivano, ma che prendono corpo qui anche nei ricordi, negli episodi, nei lampi e nelle paure che Giuliana rapita ha annotato nel suo diario mentale. Dal sequestro all’uscita dall’università di Baghdad dopo le interviste, ai giorni lunghi e sospesi della prigionia, ai momenti «irreali» della liberazione, a quel maledetto e breve tragitto verso l’aeroporto attraverso una città scura e insidiosa che la guerra ha reso paesaggio da Blade Runner. Poi il posto di blocco inaspettato, la sparatoria, il sangue: un lasso di tempo brevissimo che dà il segno negativo a quella felicità, sia di Giuliana sia di quanti aspettavamo qui la sua liberazione.

Ma il viaggio del titolo vuol essere anche quello di Nicola Calipari, da una vita di principi e rettitudine nel lavoro che faceva, alla morte misteriosa e infame, cui nessun tribunale ha poi mai reso giustizia. «Fuoco amico» è la definizione comune per quel tipo di eccesso di zelo militare che tante volte invece di puntare al «nemico», finisce per mietere vittime nel proprio schieramento. L’infamità di ogni guerra, rende ancor più misterioso quanto sia successo alla periferia di Baghdad, con le competizioni (e gli interessi contrastanti) dentro uno stesso schieramento. E proprio per evitare che desolazione e sconcerto finiscano per imprigionare i sentimenti oltre che la verità, lo spettacolo scava nella vita e nella carriera di Calipari. Allineando episodi di commovente umanità a scelte di vita non facili, usando gli strumenti elementari del teatro come luci, buio, la parola, per costruire l’emozione dello spettatore.

E al termine dello «spettacolo» alcune testimonianze dal palco aggiungono elementi di verità ancor più inquietanti, e sconosciuti ai più. Come il fatto che siano stati la correttezza e l’intuito di Calipari, al tempo del sequestro Soffiantini e della sparatoria sulla bretella autostradale romana dove restò ucciso un sottufficiale, a far emergere per questa morte le responsabilità di un «fuoco amico». O ancora il lavoro investigativo sulla ’Ndrangheta e i suoi rituali, svolto con strumenti quasi etnoantropologici, durante un soggiorno australiano cui era stato spedito per motivi di sua sicurezza personale. Una persona normale, ma con saldi e onesti principi. Tanto da apparire ora un eroe, un eroe in divisa, anche se non la portava.