Nell’ultimo periodo della sua vita, Arthur Schopenhauer disse: «L’umanità ha appreso da me alcune cose che non dimenticherà mai». Rüdiger Safranski, autore di una famosa biografia del filosofo, riconosce che ciò che è davvero indimenticabile in Schopenhauer è l’aver pensato a fondo le «grandi malattie della megalomania umana»: la malattia cosmologica (la presunzione dell’uomo di stare al centro dell’universo), la malattia biologica (l’illusione di trovarsi all’apice del vivente) e la malattia psicologica (la convinzione di essere padrone del proprio io). A queste andrebbe forse aggiunta la malattia eurocentrica, dal momento che Schopenhauer è stato il primo filosofo del Vecchio Continente a prendere sul serio una tradizione di pensiero non europea (quella indiana) e ad ancorarvi una parte significativa della sua riflessione.
Schopenhauer non si sbagliava sul fatto che la sua lezione sarebbe stata appresa e sviluppata. Ma è vero che altrettanto spesso la si è dimenticata, o deliberatamente rigettata. Un’occasione per rispolverarla è oggi la nuova apparizione de I due problemi fondamentali dell’etica per Bompiani («Il pensiero occidentale», pp. 762 , € 40,00) nella traduzione di Sossio Giametta. Schopenhauer pubblicò quest’opera nel 1841 raccogliendo due saggi accomunati non solo dal fatto di trattare il problema dell’etica filosofica, ma anche dall’essere nati in uno stesso periodo e per un’occasione simile. Il primo, dal titolo Sulla libertà del volere umano, era stato preparato per un concorso bandito dalla Regia Società delle Scienze norvegese di Trondheim, e si era aggiudicato nel 1839 il primo premio. Cosa che aveva reso il filosofo – notoriamente sprezzante nei confronti delle istituzioni del sapere – felice come un bambino (a detta del suo ammiratore Robert von Hornstein). Il secondo trattato (Sul fondamento della morale) fu invece scritto per un analogo concorso indetto, nello stesso periodo, dalla Regia Società delle Scienze danese – concorso che, nonostante fosse assolutamente sicuro della vittoria, Schopenhauer non vinse, irritandosi al punto da spendere, nella prefazione alla prima edizione dell’opera, molte pagine a contestare il verdetto dell’accademia di Copenhagen.
Schopenhauer è uno di quegli autori che, seguendo la distinzione di Isaiah Berlin, potrebbe essere definito un «riccio» (dal frammento di Archiloco secondo cui «la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande»). Se è innegabile, infatti, che i due trattati raccolti in quest’opera si collocano nel perimetro dell’etica, è anche vero che essi sono in ultima analisi una riformulazione del nucleo originario del pensiero schopenhaueriano, dell’intuizione metafisica fondamentale che contraddistingue la sua filosofia. La negazione del libero arbitrio e il riconoscimento della compassione come fondamento della morale – queste, in sostanza, le tesi avanzate nei trattati – sono altre vie per parlare della volontà che domina il vivente e del dolore dell’individuazione degli esseri: temi, entrambi, già protagonisti del capolavoro di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1818).
Il filosofo scrisse in una lettera che il suo sistema «era nato da raggi convergenti verso un centro, come un cristallo, quasi senza il suo intervento», e quella perfetta concezione era sfociata nel primo volume del Mondo. Nella prefazione alla prima edizione dei Due problemi fondamentali dell’etica è ripresa la consapevolezza di tale natura «labirintica» del proprio pensare: «La mia filosofia è come Tebe dalle cento porte – scrive Schopenhauer –: si può entrare da una porta qualunque e da questa giungere direttamente al centro». È forse a questa sostanziale immutabilità del suo pensiero che si riferiva Nietzsche quando diceva che la filosofia di Schopenhauer è una filosofia giovanile e non per adulti. Ma come ci ricorda Sossio Giametta nella sua preziosa introduzione ai Due problemi, la ripetizione degli stessi temi in Schopenhauer non è immobilità, ma «continuo sviluppo per forza interna», quasi che il suo sistema, più che un cristallo o un labirinto, sia un organismo vivente – con la circolazione sanguigna o la rete dei nervi che pur sempre fanno capo a un cuore e a un cervello. Chi si avvicini dunque all’etica di Schopenhauer può avere l’esperienza di quanto, sempre secondo Giametta, ci sia di più bello e giusto in un sistema filosofico: quella possibilità di camminare tra il centro e la periferia, in tutte le direzioni, avendo l’impressione di percorrere una strada sempre nuova. E questo è certo un elemento in più per apprezzare, da un lato, questi trattati come opere letterarie a sé stanti e, dall’altro, per non dimenticare nel suo intero la lezione di Schopenhauer. Una lezione che è stata a lungo ritenuta inattuale (nel senso più volgare del termine) e che invece attuale (nel senso più nobile) lo sarà sempre – ed è quanto Giorgio Colli, suo grande interprete e ammiratore, intendeva con il termine «classico»: il coraggio nel tentativo di decifrare il mondo, il rifiuto di legarsi a correnti e ideologie del momento, l’eccellenza nell’espressione.
A tutto questo, aggiungiamo: il richiamo sempre salutare a disfarsi di qualsiasi «divinità sostitutiva» che pretenda di occupare il cielo dell’uomo, una volta che questo è stato riconosciuto vuoto.