In che modo può un individuo, bastian contrario per niente in sintonia con le manifestazioni parigine in cui sfila, assurgere al rango di eroe leggendario? Senza una coscienza radicata della realtà complessa che lo circonda, ma con puro spirito di provocazione unito a grande insofferenza per regole e mediazioni collettive, Adam attraversa mezzo secolo di storia contemporanea -dal Maggio francese alla guerra in Afghanistan- «contro». Contro la sinistra, contro l’Urss, contro la società, più da destra che non, fondamentalmente con se stesso, al massimo a fianco del comandante mujāhīdin Massoud. Il valore di un protagonista lo conferisce chi ne racconta le gesta e la narrazione può essere più o meno condivisa, più tendente all’oggettività o alla soggettività. La tensione fra la ricostruzione onesta e autorevole di eventi e fatti, in breve della realtà, l’analisi che se ne fa e il modo di renderla nota sta alla base dell’azione documentaristica che, come sappiamo, è sempre legata a un punto di vista.

La regista romena Anca Damian lo fa con grande efficacia in forma di documentario animato nel lungometraggio La montagna magica, premiato all’ultimo Dok Leipzig e selezionato per il prossimo Festival dei Popoli (Firenze, 2 dicembre). Come con il suo Crulic-The path to beyond (2011), la filmmaker amalgama una varietà di tecniche e linguaggi dell’animazione per rendere la biografia del rifugiato polacco Adam Jacek Winkler più calda, soggettiva, emozionale e esteticamente accattivante. Molto della riuscita visiva dell’opera si deve indubbiamente anche al direttore dell’animazione Theodore Ushev, a sua volta raffinato e intenso autore pluripremiato di corti (quali I diari di Lipsett, Demoni e Sonámbulo), il cui percorso artistico passa dagli studi di Sofia fino al National Film Board del Canada.

«Questo non è un inizio. Questa è una fine»: con queste parole una voce maschile calda narrante francese fuori campo, come sanno essere quelle di récit cinematografica d’oltralpe, apre il film, mentre una carrellata sorvola un magnifico paesaggio montagnoso attraversato dalla strada della vallata del Panjshir, ricostruito in carta accartocciata e modellata. È l’Afghanistan «costruito per Massoud», luminoso, arido, roccioso. La narrazione in prima persona del protagonista arriva subito alla guerra, alle bombe che esplodono mentre le immagini virano al rosso, mescolando sangue e terra. È il punto più alto, la meta del combattente anti-sovietico, da cui si riavvolge la storia di un cavaliere irriducibile quale lui s’immagina, ma anche della figlia Ania inquieta per l’assenza del padre errabondo e indomito. Ribelle senza causa consapevole, ma romanticamente antagonista al potere «comunista», Adam impronta la sua vita alla conquista solitaria e soprattutto alla sua affermazione individuale, dando il meglio di sé soprattutto scalando pareti scoscese e da lì fotografando dall’alto in basso. «Qui ci si prende per Dio» recita il protagonista, chiamando in causa adrenalina e avventura che, più di ideali e valori, sembrano essere stati i motori della sua vita spericolata. Per converso, forza motrice del film è senz’altro la sua confezione, dalle ombre in carboncino che si oppongono alle intemperie ad alta quota, alle ricercate musiche reperite direttamente sul posto dalla regista. Ad attenuare un potenziale eccesso di toni trionfanti si inserisce la voce femminile filiale, quando con lieve ironia, quando con venature di rimpianto o invece per ricordare il lavoro in corso del film da fare. Fra fotografie in bianco e nero ritagliate su fondali colorati disegnati, pitture su vetro, collage, modellini in plastilina, filmati d’archivio e amatoriali, suggestioni dell’arte afgana e tutto quanto si possa mettere nel calderone dell’immagine ri/prodotta, si riparte dall’infanzia di Winkler, con il suo primo immaginario, subito segnata dalla morte di zio e cugino e avviata all’odio per i bolscevichi.

La montagna magica è il secondo film, dopo Crulic, di una trilogia nella forma di documentario animato dedicato all’eroismo (il terzo sarà dedicato a una donna) di individui che affrontano la morte e vogliono dare senso alla vita. Se però Crulic era una ordinario uomo irrealizzato, kafkianamente costretto a dimostrare la propria innocenza fino alla morte (unica via di riscatto finale concessogli), Winkler è al contrario un esaltato oppositore del «male» che trova senso nel gesto esemplare. Riduce ai minimi termini fra «bene» e «male», che dall’innocenza infantile si trasforma in tragico manicheismo fondamentalista, dove la causa pragmatica acceca la capacità di discernere e capire la complessità della realtà. Ma questo balza in piena evidenza alla mente dello spettatore critico, mentre non viene esplicitato dal film che sembra preferire una compiacente patina ideologica in chiave anticomunista. Se può essere comprensibile che in Europa dell’est, soprattutto da Stalin in poi, falce e martello abbiano assunto valore di marchio del potere burocratico e totalitario, meno si capisce la reticenza di artisti e intellettuali di interrogare in profondità la Storia per capire cause e conseguenze degli eventi. Oltre allo spirito romantico-decadente del combattente Winkler al fianco di Moussad, si poteva indagare sulle conseguenze di quel tipo di opzione. Non basta costatare che «poi arrivarono i talebani…», invece ci si ferma qui alle gesta individuali senza scavare a fondo nelle domande politiche aperte. Così finisce che l’ambiguità del protagonista si trascina dietro quella dell’opera e vice versa.

Avrebbe potuto fare l’artista, gli ricorda la figlia, ma lui voleva lottare per cambiare il mondo. A modo suo però, individualistico e ossessivo, da solo contro l’impossibile alla stregua di Achaab contro Moby Dick, più come sfida ai propri limiti che come mezzo per raggiungere davvero un obiettivo ideale. E così il rifugiato polacco e artista potenziale si struttura sulla propria sopravvivenza, accontentandosi di fare l’imbianchino, dando priorità al suo giustizialismo solitario. «Era un modo per esorcizzare i miei demoni. Come avrei potuto vivere con la vergogna per essere fuggito dal mio paese? Che razza di cavaliere è quello che scappa come un ratto? C’erano cose più importanti da fare» come combattere i «Comunisti» nel Congo, poi in Vietnam («ma non parlavo l’inglese») e intanto sullo schermo la silhouette di un soldato solitario armato di spada e scudo corre e volteggia, mentre scorrono filmati di archivio delle scene di guerra citate. Attivo a Parigi nel ’68, fra barricate e sassaiole, e la primavera dopo a Praga, si mescolano episodi privati, reperti fotografici storici e una girandola di stili e tecniche talvolta superbi di animazione. Dalla Francia alla Polonia con la moglie, dalla libertà alla galera, e ritorno a Parigi. Con i dissidenti russi, ma solo in parte con Solidarnosc in Polonia («Ero un anarchico ma non volevo diventare uno dei loro proletari. Mi disgustavano profondamente tutti quegli uomini con le dita a V in segno di vittoria»), fino alla «rinascita» di Adam quando nel 1979 i russi invasero l’Afghanistan. Aerei e carri armati con la stella rossa attraversano lo schermo sull’inno russo a ritmo di marcia, mentre Winkler narra la possibilità di realizzazione del sogno di una vita: conoscere gente non spaventata dall’Armata rossa. Il popolo afgano diventa la sua causa. E Ania ridacchia.

Con nessun collegamento con i recenti attentati di venerdì 13 a Parigi, tuttavia l’esperienza semiclandestina e talvolta illegale di Adam ci mostra anche il lato oscuro di come si possano preparare tattiche guerrigliere islamiste all’ombra della Tour Eiffel. Ma la storia vera di Adam in Afghanistan si conclude con l’uccisione di Massoud due giorni prima dell’11 settembre 2001, mentre la vita di Winkler termina esemplarmente un anno dopo durante una scalata solitaria sul Mont Maudit.