Imprese ai limiti delle possibilità umane e folli avventure di tutti i tipi. Cime da conquistare, ma anche distese sterminate oppure tradizioni che stanno morendo o nuove forme sostenibili di vivere la campagna e la natura. Questo è il Trento Film Festival, storica manifestazione della montagna che ogni anno allarga i suoi orizzonti e ha concluso sabato la 62° edizione.

La giuria, composta dall’alpinista e documentarista Jabi Baraizarra, la scrittrice Maria Coffey, i registi Andrea Pallaoro (del quale è stato proiettato il bell’esordio Medeas) e Nikolau Geyrhalter e lo scalatore Alex Honnold, ha compiuto scelte condivisibili tra i 15 lungometraggi e i 12 corti in lizza. La Genziana d’oro per il miglior film è andata al tedesco Metamorphosen di Sebastian Mez. Un film in bianco e nero negli Urali meridionali. Nel 1957 un’esplosione nucleare dalla centrale di Majak, a nord ovest della città di Celjabinsk, contaminò una superficie molto vasta nel bacino del fiume Techa le cui acque confluiscono nell’Ob. Gli abitanti della zona continuarono a vivere nell’area, spostati, nel migliore dei casi, di pochi chilometri. Mez filma e intervista le persone, soprattutto anziani, che vivono quelle terre, ma non in modo consueto, lascia che le loro voci ci accompagnino nella scoperta e nell’osservazione della campagna, dei boschi, dei laghi e del fiume contaminati. La sequenza del rilevatore di radioattività che impazzisce avvicinandosi all’acqua, dove i pescatori pescano le carpe, è impressionante. Un film asciutto potente che ricorda in qualche modo Materia oscura di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Il regista con le sue immagini rigorose riesce quasi a far percepire e vedere la contaminazione, la presenza di un pericolo per gli uomini.

Molto interessante e originale anche il vincitore della Genziana come miglior film di alpinismo, il corto polacco Sati di Bartek Swiderski. In soli 25 minuti il regista riesce a trattare il dolore di chi perde una persona in montagna e l’elaborazione del lutto e insieme la gioia dell’alpinismo, i panorami mozzafiato dell’Himalaya e l’adrenalina che spinge sempre a obiettivi più difficili. Da una parte ci sono immagini di Piotr Morawski, famoso alpinista che ha raggiunto sei Ottomila ed è stato compagno di cordata dell’italiano Simone Moro, morto sul Dhaulagiri l’8 aprile 2009. Dall’altra la vedova Olga, ripresa sempre in penombra, illuminata solo su un lato del viso, sul divano di casa che racconta le sue emozioni e il succedersi dei suoi pensieri dopo la scomparsa del marito. Un film toccante, in un alternarsi di umori e sentimenti, tra la mancanza, i rimpianti (come il ricordo della sua missione sull’Annapurna mentre lei era incinta), i ricordi dei momenti belli insieme, delle lunghe attese. E anche la sgradevole sensazione che sia meglio così, ora che non deve più stare in pensiero per Piotr. Una consolazione è la consapevolezza che l’uomo è morto facendo ciò che amava. Il titolo, Sati, riguarda un rito indiano quando si brucia anche la moglie insieme al cadavere del marito morto in una forma di unione estrema.

L’altra categoria del festival, il film di esplorazione e avventura, ha visto premiato Janapar: Love On A Bike di James Newton, anche questo un po’ insolito. Una storia d’amore ai limiti dell’incredibile, in bicicletta come suggerisce il titolo, ma solo in parte. Perché l’inglese Tom Allen, partito a 23 anni in bicicletta per fare il giro del mondo con due amici ma senza una vera preparazione, resta bloccato per qualche giorno in Caucaso per colpa della neve. Il tempo di conoscere Tenny, iraniana di origine armena che vive a Yerevan, e innamorarsene a prima vista. Indeciso tra la bici e l’amata, il protagonista, che si filma con una videocamerina, tenta l’impossibile: partire con Tenny verso Tehran e chiedere ai genitori di lei il permesso per completare il viaggio insieme. In Iran arriveranno, ma la famiglia è irremovibile. A Tom serviranno ancora molte migliaia di chilometri da solo sul sellino per interpretare i suoi veri sentimenti. Un film avvincente e romantico, quasi un viaggio di iniziazione in bicicletta.

È lucidamente folle il Tarzan catalano protagonista di The Creator Of The Jungle di Jordi Morató, premiato per il miglior contributo tecnico. La vita del signor Garrell che ha dedicato 45 anni a costruire strutture incredibili in un bosco della catalogna: torri, labirinti, grotte, dighe, cascate. Una giungla dove poi divertirsi a girare dei film amatoriali dove interpreta Tarzan, con l’eroe impegnato a difendersi dagli intrusi che minacciano il suo mondo. Le minacce sono reali, una strada in costruzione, le leggi che limitano le costruzioni, ma ciò non frena la creatività del protagonista.

Comico ma con un testo politico che si nasconde dietro il pannello finale è La lampe au beurre de yak di Hu Wei, cinese che lavora in Francia, miglior cortometraggio. Un fotografo ambulante tibetano scatta foto alle famiglie davanti ai fondali, ma si verificano episodi curiosi. Sulle ingerenze cinesi nelle tradizioni tibetane anche Voltures of Tibet di Russell O. Bush. Alcuni film meritevoli sono rimasti fuori dai premi, o si sono dovuti accontentare di riconoscimenti non ufficiali. Tra questi Still di Matti Bauer su una giovane indecisa se portare avanti la stalla di famiglia.