L’unica regola non scritta che ho più o meno rispettato è quella di andare in giro, dalla prima uscita al mattino alle otto, abbigliata con vesti che solitamente riservo per occasioni speciali, serate mondane, uscite con qualcuno su cui voler fare colpo (in un senso o in un altro). Qui, pure sotto il sole cocente delle tre o nel freschetto ventoso di riviera al tramonto, le fanciulle in fiore, così come le tardive Madame della Belle France, indossano vistosi abiti da sera, paillettes, scollature poderose sul davanti, sul didietro scoprendo la sottile linea tra i glutei, addirittura ai lati dei fianchi, allo stacco tra il busto e il cominciamento della coscia (così impossibilitate a portare qualsiasi tipo di biancheria intima), tacchi sottili come filo interdentale (ma qui non siamo tra i sanpietrini romani), un Pantone di colori brucia-retina, fantasie di fiori geometrie maculature righe pois volatili ruches fiocchi farfalle bonbon strass e chi più ne ha più ne metta, al di là di ogni limite dell’immaginazione.

È il luogo perfetto dove sentirsi inappropriati con un paio di jeans e una maglietta (Nino d’angelo cambierebbe mise e Kate Moss versione casalinga forse preferirebbe un nude look). È facile trovare uno accanto all’altro un papillon su camicia bianca e smoking lucido (caldo solo a guardarlo) e t-shirt alla marinière, righe bianche e nere da gondoliere veneziano. Ora per esempio sono in coda – tò che cosa nuova! – picchiata in testa dalla palla infuocata che riscalda il nostro pianeta, in attesa che aprano il tappeto rosso per la proiezione pomeridiana del film in concorso, tutti ingabbiati tra transenne, e per rallegrarci dei grandi amplificatori sparano una musica dancing a palla: l’unica è mettersi a ballare.

Presto mi accorgo però di essere la sola a tenere il ritmo, mi vergogno e smetto, mi ripongo (e penso alle scene di ballo a cui ho assistito in questi giorni sullo schermo: la quadriglia tra marito e moglie ognuno intrecciato alla mano di una delle due gemelline, allegria bruciante come medicina che va presa, amara ma curativa (L’economie du couple, Joachim Lafosse); il ballo tra Clara e un avvenente sessantenne brizzolato in un localetto brasiliano, ballo destinato a finire in palpeggiamenti in macchina dalla dura conclusione (Aquarius, Kleber Mendonça Filho); la musica techno alienata in Islanda dove Agathe per ferire Samir si struscia con un barbuto islandese a caso (L’effet aquatique, Solveig Anspach); gli esilaranti titoli di testa di un filmetto amicale francese sul triangolo (L’apnée) in cui tre pattinatori, due uomini e una donna, coperti in viso da una maschera colorata, danzano virtuosamente acrobatici su una pista di pattinaggio sul ghiaccio, completamente nudi.

Poi torno coi piedi per terra, ad un tratto, intorno a me, tutti parlano di malattie, malanni, di quanto stanno male, quanto è stancante questo festival, si corre da una parte all’altra, si suda però bisogna essere composti e puliti, non lucidi e puzzolenti.

Il mio luogo preferito dal primo giorno, in effetti, è la farmacia: la dottoressa al quarto giorno consecutivo in cui mi vede mi saluta con un «à demain». Di giorno vedo film, di notte abbasso la cresta, misuro la mia stanchezza, guardo in faccia la realtà e ammetto che non entrerò mai al film alla Debussy delle 19, riprendo la via di casa e mi preparo una cenetta sana a base di riso e verdure bollite (dopo il quasi digiuno diurno) che mi curerà la delusione di non vedere le star dal vivo, di non gustarmi il serale show umano sulla Croisette, di vedere il mare luccicante di notte sotto le stelle. Chiudo gli occhi, rivedo le immagini che mi hanno più colpito nella giornata, respiro e penso: voilà, cette année sono proprio la monaca di Cannes.
(Giuro: non mi sono fatta nemmeno un selfie sul tappeto rosso)

fabianasargentini@alice.it