La Casa di Alice è un villino immerso nel nulla a Baia Verde, sul litorale casertano. In quattro camere lavorano altrettante persone: Anna Cecere, Maria Cirillo, Kawi Patt e Anna Bose. Le prime due sono napoletane, le altre rispettivamente nigeriana e ghanese. La Casa dal ’97 a oggi ha ospitato un centro per donne vittime della tratta e un osservatorio sul disagio sociale. Fino ad allora la villa era appartenuta ad Assunta Maresca, una donna la cui storia inonderà le cronache dei giornali, alla metà degli anni ’50.

Una storia che vale la pena riassumere. Pupetta, com’era chiamata da ragazzina a Castellammare di Stabia per i lineamenti da bambola, a 16 anni era stata incoronata reginetta dell’anno a un concorso di bellezza, a Pomigliano d’Arco, attirandosi gli sguardi di Pasquale Simonetti, “presidente dei prezzi” – vale a dire capobastone della malavita – al mercato ortofrutticolo napoletano. Per l’imponenza fisica Simonetti era soprannominato Pascalone ‘e Nola, e di lì a poco sposerà Pupetta Maresca con un sontuoso matrimonio cominciato nella Basilica di Santa Maria di Pozzano e concluso in un ristorante di Castellammare, città in cui la famiglia della sposa godeva di provata fama malavitosa – erano denominati i “Lampetielli” per l’abilità a tirar di coltello. A fargli da testimone, quello che appena tre mesi dopo sarà il suo killer: Gaetano Orlando, detto Tanino ‘e bastimento. Lo stesso personaggio che, stando a quanto racconta lo scrittore Hans Magnus Enzensberger, alla fine del pranzo di matrimonio si era alzato e aveva preso a intonare uno storico canto di malavita: “Guapparìa”.

La genesi del delitto, avvenuto il 16 luglio del ’55, non sarà mai chiarita del tutto: una banale lite o più probabilmente uno scontro di potere per la gestione dell’agromafia. Quello che lo fece diventare un caso da feuilleton fu quanto avvenne dopo: l’avvenente, giovanissima Assunta Maresca, incinta di sei mesi, si vendicò scaricando addosso ad Antonio Esposito, detto Totonno ’e Pomigliano, considerato il mandante dell’omicidio, l’intero caricatore di una pistola. Era il 4 ottobre del 1955.
«Non è stata vendetta, ma legittima difesa», sostiene ancora oggi, a 77 anni, un figlio scomparso e mai più ritrovato e altri due avuti dalla relazione con un boss dalla curiosa somiglianza con l’attore francese Jean Paul Belmondo e dalla stazza criminale non inferiore a quella di Pascalone: Umberto Ammaturo “ ‘o pazzo”, narcotrafficante napoletano di calibro internazionale.

Affidata dal comune di Castel Volturno all’associazione intitolata a Jerry Esslan Masslo – l’immigrato sudafricano ucciso nel 1989 a Villa Literno da due giovani rapinatori – la Casa di Alice è gestita dalla cooperativa Nuovi Orizzonti e ospita una sartoria sociale che sforna capi d’abbigliamento confezionati con tessuti africani. Un laboratorio di moda etnica afro-partenopea dai forti contenuti politico-sociali e un’ambizione dichiarata: mostrare il proprio lavoro, un giorno non lontano, nelle grandi sfilate. È grazie alla tenacia di un pugno di attivisti anticamorra che è stata vinta la sfida di dare un futuro ad alcune ragazze africane arrivate in Italia con mezzi di fortuna e costrette a prostituirsi – le “ragazze di Benin City” di cui ha scritto Isoke Aikpitanyi, una di loro che è riuscita a trovare le parole per raccontarsi.[do action=”citazione”]La villa di Pupetta Maresca è un fiore all’occhiello tra i beni confiscati alla mafia e recuperati ad uso sociale. Un bene comune, diremmo oggi se volessimo adoperare una terminologia à la page.[/do]

Se Pupetta Maresca è la “passionaria” della camorra, Anna Cecere può essere, viceversa, considerata la “pasionaria” dell’anticamorra. Non ci fosse stata lei, il progetto di un logo etico “made in Castel Volturno”, che rovescia luoghi comuni e leggende sulla difficoltà di lavorare in Terra di Lavoro – un corto circuito semantico di non poco conto – non sarebbe mai andato in porto. «La camorra si può battere», ha urlato senza alcun timore qualche mese fa presentando una sfilata dei suoi capi di vestiario in un teatro d’eccezione: una masseria mai ultimata, nelle campagne di Castel Volturno, appartenuta a Michele Zaza, boss del contrabbando di sigarette con il quale Pupetta Maresca si era alleata per intaccare l’egemonia della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Erano gli inizi degli anni ’80, e alla donna non era mancata la sfrontatezza di convocare una conferenza stampa per attaccare il boss dei boss, “ ‘o professore” Cutolo: «Se per Nuova Famiglia si intende tutta quella gente che si difende dallo strapotere di quest’uomo, allora mi ritengo affiliata a questa organizzazione», disse.

Oggi nei campi dove erano allevati i cavalli destinati alle corse clandestine – altro business del clan – pascolano le bufale che forniscono il latte per quella che definiscono “mozzarella giusta”, libera da scorie camorristiche ma anche biologica al cento per cento. Roberto Fiorillo è un agronomo, ed è lui che gestisce, insieme ad altri quattro soci, questi cento ettari di terra assegnata loro grazie a un protocollo d’intesa tra comuni, prefettura, regione e associazioni. «Quello che ci spinge è cercare di dimostrare che possiamo essere una risorsa per il territorio. Questi luoghi hanno subito per cinquant’anni sfruttamento e devastazione, e noi vogliamo far capire alle persone che non devono pensare solo al proprio orto», così spiega il suo lavoro e quello della Cooperativa Libera Terra, che si è vista assegnare il bene confiscato dopo anni di battaglie.

Se nel casolare di Zaza si gioca la partita di un diverso utilizzo del territorio, nella villa di Pupetta Maresca la sfida è quella di vincere la partita dell’integrazione nel tessuto sociale delle migliaia di neri che popolano la “little Africa” casertana. «Con i nostri capi dimostriamo come i migranti siano una risorsa, e aiutiamo a superare la diffidenza e il razzismo nei loro confronti”, afferma Anna Cecere, e le sue parole non risuonerebbero così pesanti se non ci trovassimo a poche centinaia di metri dal monumento che ricorda Miriam Makeba, “mama Africa”, morta proprio qui dopo un concerto per ricordare i sei migranti uccisi dal clan Setola – ala militare e sanguinaria dei Casalesi – nella cosiddetta strage di San Gennaro del 2008.

Ma non c’è solo questo. Quelle della cooperativa Libera Terra che produce le mozzarelle anticamorra, del ristorante Nco il cui acronimo fa il verso all’organizzazione cutoliana ma sta a significare Nuova Cucina Organizzata, della squadra di calcio Nuova Quarto affidata a un’associazione anti-racket, nonché della sartoria afro-italiana nella villa di Pupetta Maresca rappresentano altrettanti attacchi al cuore del modello economico camorrista e al suo radicamento sociale.
Da queste parti, è bene ricordarlo, la guerra tra la Nco e la Nuova Famiglia lasciò sul terreno, tra il 1980 e il 1984, 1.242 morti ammazzati. I Casalesi arriveranno solo dopo, appartengono a un’altra generazione di quella camorra rurale nel tempo fattasi imprenditrice senza però mai dismettere il suo braccio armato. Pascalone ‘e Nola, l’uomo che secondo una leggenda osò sferrare uno schiaffo a Lucky Luciano all’ippodromo di Agnano solo perché aveva rifiutato di giocare con lui una corsa di cavalli, fa parte di un’altra epoca. Ammaturo fu arrestato in Perù nel 1993 con la sua nuova compagna, sudamericana, dopo aver avuto due figli con Assunta, che non vorrà mai sposarlo.

Si pentì, confessò una serie di efferati omicidi e fece arrestare un centinaio di persone. La storia di Pupetta Maresca, per la sua particolarità e il fascino mediterraneo della protagonista, ha appassionato cineasti e intellettuali. Francesco Rosi esordì al cinema nel 1958 con un film ispirato alla sua vicenda: La sfida. Nel 1982 fu la volta di un altro lungometraggio: Il caso Pupetta. A interpretare la “passionaria” è una giovane Alessandra Mussolini. Qualche anno dopo Enzensberger le dedicherà un saggio, Politica e cinismo, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri. Mediaset arriva buona ultima. Quale fiction racconterà la storia della stilista anticamorra Anna Cecere e delle sarte africane di Baia Verde?