In Germania, a partire dal 2017, il salario minimo sarà elevato a 8,5 euro. La grancassa mediatica si è già messa in moto per presentare questo risultato come la logica conseguenza della vitalità del modello tedesco, un modello da seguire tanto nei suoi aspetti strutturali quanto in quelli politici.

Si tende oltretutto, specialmente da sinistra, a presentare questa misura come una vittoria della socialdemocrazia. Il modello è semplicisticamente descritto, con qualche sfumatura, nella seguente maniera.

Un Paese con istituzioni solide; con un sindacato dei lavoratori non ideologico, moderato, «responsabile» e disposto, per il bene futuro, a sopportare «sacrifici»; con una bassa intensità della conflittualità politica, che trova la propria quadra nel modello della «grande coalizione»; con una leadership forte e sicura di sé; tutto questo porterebbe, quasi naturalmente, ad una crescita economica armonica, nel medio periodo destinata a far ricadere, a pioggia, benefici su tutte le fasce della popolazione.

Si tratta in realtà di una descrizione mistificatoria, basata a ben vedere su di un totale rovesciamento delle cause e degli effetti del «secondo miracolo» tedesco. Già il grande teorico laburista inglese Harold Laski, riflettendo, nel corso degli anni Trenta del secolo scorso, sulla storia del proprio Paese, aveva dimostrato che è il successo economico ad essere alla base della stabilità democratica nei regimi liberali, e non viceversa. E che, in un sistema come quello capitalistico, di per sé tendente alla produzione e alla accentuazione delle disuguaglianze, queste precondizioni si registrano in realtà di tipo imperiale; in sistemi politico-sociali, cioè, ove più facile sia scaricare sulle «periferie» il prezzo del benessere diffuso nella «metropoli». Venendo alle cose nostre di oggi, la lezione di Laski viene utile per dimostrare che, da una parte, le virtù del modello politico tedesco, più che produrlo, risultano comodamente assise sul successo economico; e dall’altra, che tale successo risulta a sua volta largamente costruito sulla sconfitta dei competitors più deboli.

Se infatti il salario minimo tedesco crescerà, si tratterà tuttavia di un recupero, vista la pressione verso il basso cui gli stessi salari tedeschi sono stati sottoposti a partire dai primi anni Duemila (l’operazione fu avviata dai governi socialdemocratici guidati da Gerhard Schöeder, con la famosa «Agenda 2010», dettata al Partito operaio per eccellenza dal Top Manager di uno dei più influenti gruppi capitalistici del Paese). Come ha messo in luce una recente rassegna pubblicata da Giaime Pala, il dumping salariale tedesco, unito a una bassa inflazione dovuta a una domanda aggregata interna anemica, portò nella Germania dei primi anni Duemila ad una vera e propria svalutazione interna mascherata; strumento cui, con l’entrata in vigore dell’euro, i paesi più deboli non potevano più far ricorso; e proprio nel momento in cui essi si indebitavano per acquistare prodotti tedeschi più competitivi e subivano sulla propria pelle (soprattutto, sui propri territori) l’invasione dei capitali dei paesi più forti in libera uscita. Il capolavoro economico delle classi dirigenti tedesche è consistito quindi nello scaricare sulle economie dei cosiddetti «Pigs» i costi del loro successo; quello politico nel mascherare quello che è stato un vero e proprio attacco sotto il manto della costruzione europea, cosicché classi dirigenti miopi e subalterne culturalmente non hanno neppure vissuto l’attacco come tale. Non a caso, sottolinea ancora Pala, alla base dell’accordo della Grande Coalizione tedesca vi è l’esplicito veto, per il futuro, ad una armonizzazione dei regimi fiscali e delle politiche del lavoro dell’Unione europea.

È quindi fiorita una narrazione quasi antropologica sulle deficienze dei Paesi del Sud, che non tiene assolutamente in conto lo stato reale dei rapporti di forza presenti nel Continente e delle loro cause. Una narrazione oltretutto – e qui sta il problema, che altrimenti si rischia di cadere in una sorta di demonologia su una Germania «dal destino e dalla vocazione al male segnati» – accettata supinamente dalle élites dei Paesi periferici. Queste prendono come unico riferimento e bussola varianti locali dell’«Agenda 2010» e delle misure neoliberali che essa dettava, ignorando le cause straordinarie che ne hanno accompagnato il successo. E, nel frattempo, accettano l’austerità europea, con l’effetto di indebolire ulteriormente le proprie economie: privatizzazioni sconsiderate indeboliscono il patrimonio produttivo nazionale; tagli alla ricerca favoriscono l’attrazione verso le «metropoli» delle migliori energie intellettuali; la precarietà del lavoro, lungi dal favorirla, mina la competitività delle nostre aziende, stimolate meno ad innovare e più a tagliare i costi del lavoro.

La risposta politica che ceti medi impoveriti, classi popolari senza più rappresentanza politica ed élites interessate stanno dando agli effetti disastrosi di questo perverso circolo vizioso non fanno dormire sonni tranquilli in vista delle prossime elezioni europee. La sinistra dal canto suo, se davvero è interessata ad elaborare una via d’uscita progressista alla crisi, dovrebbe sfruttare l’imminente agone elettorale e dar battaglia attorno a questi temi, per non rischiare di vedersi tagliata fuori in un bipolarismo tutto racchiuso nella sfida tra tecnocrati liberisti e destre populiste.