Nella tradizione di opere filosofiche e teologiche una delle più controverse è il Corpus Dionysiacum di Dionigi Areopagita: quattro trattati e una silloge di lettere cui si dovrebbero aggiungere altri sette testi menzionati dall’autore, ma non pervenutici. Sin da quando si hanno notizie sulla sua circolazione nel VI sec. d. C. si sono addensati dubbi sull’identità di Dionigi, su quando l’opera è stata scritta e sul significato. Ciò non ha però comportato che il Corpus fosse messo da parte. Al contrario, in certi periodi è addirittura diventato un punto di riferimento del pensiero cristiano fino al punto da dare aura di santità al suo autore che si presenta anche come personaggio della sua opera. Dionigi sarebbe uno dei due soli seguaci di San Paolo convertitisi dopo la missione dell’apostolo nell’Areopago. Dichiara di essere un corrispondente dell’evangelista Giovanni e di aver assistito al funerale della Madonna. Dionigi sarebbe insomma una sorta di proto-padre della Chiesa che ha l’ambizione di sistemare dentro la tradizione filosofica platonica alcuni dei fondamenti del cristianesimo. Qui però si trovano strane incongruenze. Ad esempio, tutti quelli che sono gli elementi fattuali e storici del cristianesimo, la figura di Gesù e la sua crocifissione non hanno un grande ruolo nella sua sistemazione che si profonde invece nell’angiologia, la gerarchia ecclesiastica, i nomi divini e la mistica. Quest’ultima soprattutto, immaginata come itinerario di negazioni, ha fatto del Corpus un modello che ha avuto grande fortuna nello sviluppo del misticismo filosofico e teologico cristiano.

A mettere decisamente l’accento sul Corpus di Dionigi quale falso d’autore è stato per primo il filologo e umanista Lorenzo Valla, senza che ciò però abbia comportato che l’opera dell’Areopagita scomparisse dal canone. Dalla filologia otto/novecentesca la questione della falsità è stata poi sviluppata e intesa o come caso di pseudoepigrafia autorevole o al contrario come operazione che intendeva dare al Corpus un’antichità e autorità teologica che non gli appartenevano. In entrambi i casi e per ragioni diverse l’identità dell’autore è rimasta un mistero. La maggior parte degli studiosi ha datato l’opera fra secondo e terzo decennio del 500 d. C. quando l’imperatore Giustiniano, impegnato a restaurare l’autorità imperiale, decide di chiudere l’Accademia ateniese, avamposto della cultura pagana.

Solo in tempi più recenti è stata condotta un’edizione critica (Walter de Gruyter, 1990 – 1991) più accurata di quella della versione latina ottocentesca di Cordier, base anche della prima integrale traduzione italiana di Enrico Turolla pubblicata nel 1956 (Cedam). Riproposta ora per le edizioni La Vita Felice (Corpus dionysiacum, pp. 464, euro 19,50), questa traduzione è incline ad assecondare l’afflato mistico e l’autorevolezza teologica del Corpus. Nella sua nota introduttiva Turolla difende la natura pseudoepigrafa del testo contro il falso d’autore e respinge la datazione del VI sec. a favore dell’arcaicità tra fine del I e prima metà del II sec.

Quella di Turolla non sostituisce la versione di Pietro Scazzoso curata da Enzo Bellini all’inizio degli anni Ottanta per Rusconi e poi ristampata con le revisioni di Ilaria Ramelli nella collana dei classici del pensiero occidentale diretta da Giovanni Reale per Bompiani. Quello di Turolla è tuttavia un documento importante che attesta il sopravvivere anche nel novecento di una ricezione del Corpus dionysiacum non confinata soltanto agli studi e alle problematiche filologiche, ma viva e operante. (Non sono mancati devoti e filosofi nel Novecento che hanno continuato a entusiasmarsi per il Corpus, come ad esempio Edith Stein). Soprattutto, la traduzione di Turolla si inserisce nella più ampia questione della ricezione del Corpus, fatto altrettanto importante nella tradizione dei suoi testi. Sulla ricezione aveva insistito Giovanni Reale nell’introduzione all’edizione Bompiani, anche a fronte dell’ulteriore rilancio della tesi del falso d’autore che nel 2006 è stato fatto da Carlo Maria Mazzucchi.

La tesi di Mazzucchi segna un punto estremo nella diatriba che si gioca sul Corpus Dionysiacum, perché non soltanto conferma la datazione all’epoca di Giustiniano dei testi, ma identifica il misterioso autore in Damascio di Damasco, autore del De principiis e soprattutto ultimo diadoco dell’Accademia ateniese chiusa dall’imperatore nel 529. Per Mazzucchi non solo in Dionigi si celerebbe Damascio, ma quest’ultimo dissimulerebbe nel Corpus un disegno neoplatonico nel quale il cristianesimo dovrebbe dissolversi. Dunque, non il neoplatonismo dovrebbe fungere da base per una teologia cristiana, ma al contrario, sarebbe quest’ultima ad essere ricondotta e neutralizzata nell’alveo del pensiero platonico. Quello di Dionigi/Damascio costituirebbe, secondo Mazzucchi, un estremo e coperto tentativo di controversistica anti-cristiana nel quale lo stile teologico negativo assunto dall’autore svolge un ruolo cruciale. In tal senso si potrebbe dire che qui la mistica si afferma anche come processo argomentativo che simultaneamente mistifica o demistifica (dipende dai punti di vista) l’oggetto ricercato nel modo della ricerca, fino a rendere indecidibili il «che cosa» e il «come», in maniera analoga ai procedimenti dei misteri eleusini con i quali il neoplatonismo del Corpus rivela diversi elementi in comune.

Se si pensa a quanto invece il Corpus ha contato nella tradizione teologica cristiana, non si può non rimanere ulteriormente meravigliati e affascinati dalla potenza di questi testi. Anche se non fosse confermata l’attribuzione a Damascio fatta da Mazzucchi, il Corpus rappresenta un caso che ci invita a riflettere sulla natura simbiotica di lettera e spirito dei testi, sulla loro eterogenesi dei fini, sulla polarità fra autore reale e autore personaggio, sul fatto di come la storia della tradizione a volte possa tradire anche l’autorità di chi ha scritto.