Poco alla volta i deputati di al Ahrar danno le dimissioni e si uniscono al loro leader, il religioso sciita Muqtada Sadr, che domenica, con una mossa a sorpresa, ha annunciato il ritiro dalla vita politica a due mesi dalle consultazioni elettorali. Hanno abbandonato l’Assemblea già dieci dei 40 deputati sadristi e molti altri faranno lo stesso nei prossimi giorni, come molti di loro fanno sapere in queste ore. Allo stesso tempo si moltiplicano i tentativi per persuadere Sadr a fare retromarcia e a non rinunciare ad essere uno degli attori principali dell’insanguinato palcoscenico politico e militare iracheno. Gli attivisti chiedono al leader di non lasciare l’Iraq in mano al principale avversario, il premier Nour al Maliki che vuole dagli iracheni la riconferma e il terzo mandato. Ieri centinaia di militanti di al Ahrar si sono riuniti davanti all’ufficio di Sadr nella città santa di Najaf, per esortarlo a ripensarci. In Iraq tutto cambia, l’unica cosa certa è la morte.

«Annuncio che non parteciperò più agli affari politici e che non ci sarà più alcun blocco che ci rappresenterà né in governo né in Parlamento», ha comunicato domenica Sadr, tra lo sgomento dei suoi fedelissimi. Un passo che segue un anno di assenza dalla scena pubblica irachena, trascorso a studiare teologia e legge islamica, per gran parte del tempo in Iran. Non tutti sono tristi in queste ore. Al Maliki festeggia. Ormai è lui l’unica personalità sciita di rilievo impegnata nella corsa elettorale. Sa che il suo partito raccoglierà gran parte dei voti di al Ahrar. Una domanda corre sulla bocca di tanti iracheni: perchè Muqtada Sadr si fa da parte parte, quali sono le ragioni di una uscita dalla politica che non sembra avere, agli occhi di molti, una spiegazione razionale. E fioccano le ipotesi sui motivi che hanno spinto il leader religioso a muovere un passo così estremo.
Sadr, 43 anni, che in pubblico appare immancabilmente con il turbante color nero dei discendenti di Maometto, appartiene a una delle più importanti dinastie del mondo sciita. Dopo l’invasione anglo-americana (2003), poco più che trentenne, formò una’agguerrita milizia, molto popolare tra i più poveri ed emarginati, l’Esercito del Mahdi (60mila uomini), impegnata a combattere non solo gli occupanti occidentali ma anche il terrorismo qaedista anti-sciita. Rimarranno nella storia dell’Iraq le battaglie che i suoi uomini ingaggiarono tra la primavera e l’estate del 2008 con le forze armate “regolari” appoggiate dagli occupanti americani. Radicale ma anche pragmatico, Sadr dopo quei combattimenti decise di sciogliere l’Esercito del Mahdi – vicino in quel periodo a frantumarsi in decine di formazioni più piccole ed indipendenti – e di dar vita a un movimento con un forte orienamento sociale, Mumahidun. In realtà l’Esercito del Mahdi non è mai scomparso e risorge di volta in volta quando gli sciiti ritengono di dover usare la forza per difendersi in un paese dove il settarismo è riesploso con violenza.

Sadr da sempre è un alleato dell’Iran, per ragioni teologiche e politiche. Un rapporto che resiste ancora oggi ma che si è fatto più complesso, meno lineare, a causa del sostegno che Tehran continua a dare al premier Maliki, contestato e definito da Sadr un “dittatore” e un “servo degli Usa”. Il giovane leader sciita ha dato delle motivazioni vaghe della sua decisione. Ha detto di volere «preservare la reputazione e l’onore di due martiri della famiglia Sadr», alludendo al padre Mohammed Sadiq Sadr, ayatollah e alfiere dello sciismo militante, e a un altro parente stretto, entrambi assassinati sotto Saddam Hussein. Ma non ha chiarito in quale modo sarebbe minacciata la reputazione dei suoi famigliari. Qualcuno ha spiegato quelle parole come l’ammissione dell’esistenza di corruzione anche in al Ahrar. Altri con la necessità di prendere le distanze dal processo elettorale per continuare ad influenzare la politica nazionale da dietro le quinte. Una giornalista irachena, che ci ha chiesto di essere indicata solo con le iniziali, R.A, sostiene che è in parte cambiato il rapporto tra Sadr e l’Iran del presidente Hassan Rowhani. Quest’ultimo intenderebbe rafforzare la premiership di Nour al Maliki – sosteneva la giornalista – anche nel quadro del miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti, e si attende da Muqtada Sadr un approccio meno conflittuale nei confronti del premier iracheno. Davanti a ciò, Sadr avrebbe preferito farsi da parte, essere invisibile nella politica pubblica, senza rinunciare ad esercitare la sua influenza.

Il ritiro dalla politica nazionale del giovane leader sciita avviene mentre l’Iraq precipita giorno dopo giorno in una seconda guerra civile, dopo quella tra il 2005 e il 2009 che aveva insanguinato il Paese. Ieri le forze di sicurezza irachene hanno annunciato di aver ucciso 15 ribelli in un attacco volto a riprendere la zona settentrionale, a Suleiman Bek. Le forze governative hanno attaccato la città da tre punti costringendo gli insorti a ritirarsi. Si combatte duramente anche nella provincia di al-Anbar, ad ovest di Baghdad, dove jihadisti, ribelli e membri delle tribù anti-governative hanno preso il controllo di Fallujah e Ramadi. La violenza di Al-Anbar, roccaforte dei rivoltosi nel 2003, ha costretto più di 370.000 civili a fuggire. A gennaio oltre 1.000 persone sono state uccise in attentati, combattimenti ed operazioni di esercito e polizia. Intanto le esportazioni di petrolio dal nord dell’Iraq verso il porto turco di Ceyhan sono state sospese in seguito a un attentato nel quale ieri sono rimasti feriti due persone. Una bomba è esplosa nella località di Hatra, cento chilometri a sud di Mosul, mentre un gruppo di tecnici era al lavoro.