La minoranza del Pd esce allo scoperto a palazzo Madama, alla vigilia della terza lettura della riforma istituzionale. Sono 25 i senatori che propongono una serie di modifiche, illustrate ieri da Miguel Gotor e Vannino Chiti. La più vistosa è il ritorno al Senato elettivo. Non meno fondamentale, forse addirittura di più, è però l’obiettivo di restituire al Senato effettivi poteri di controllo e garanzia. Necessità tanto più urgente, dice Gotor, con un sistema elettorale come l’Italicum che «incide a fondo sulla forma di governo».

I 25 senatori chiedono esplicitamente di rimettere mano all’articolo 2 della riforma, quello che regola l’elezione dei senatori. E’ il passaggio più spinoso. La Camera lo ha infatti approvato soltanto con una live differenza. La decisione sulla possibilità di rivederlo ulteriormente spetta pertanto al presidente del Senato Grasso. Sinora, in presenza di modifiche non sostanziali, non lo si è mai fatto. «Ma in questo caso – replica Chiti – bisogna ricordare che un parlamento eletto con una legge incostituzionale sta riformando la Costituzione. Ha il diritto di farlo, perché questo ha stabilito la Consulta, ma deve farlo senza lasciare spazio a critiche e cercando a tutti i costi il massimo di consenso possibile». I senatori della minoranza dem si augurano che la richiesta venga avanzata da tutte le forze d’opposizione, ma da questo punto di vista è stato probabilmente un passo falso anticipare la proposta da soli invece di concordarla in anticipo.

Stando alle voci, il governo potrebbe essere disposto a concedere una sorta di Senato «semi-elettivo». I senatori verrebbero eletti contestualmente alle regionali, con apposito listino. E’ un’ipotesi che andrebbe incontro anche alle richieste dell’Ncd, tra i cui senatori molti scalpitano. In ogni caso, il governo vorrebbe procedere con una legge ordinaria, idea bocciata dalla minoranza Pd, perché in caso contrario, ove si intervenisse comme il faut, dunque riscrivendo una parte dell’articolo 2, la riforma dovrebbe tornare alla Camera una volta di più. I tempi slitterebbero. La convocazione del referendum confermativo per giugno dell’anno prossimo diventerebbe impossibile.

Nonostante un apparente ottimismo seguito all’incontro di mercoledì sera tra la ministra Boschi, peraltro pochissimo disposta a concedere modifiche sostanziali, e la presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro, con all’ordine del giorno proprio la ricerca di un accordo con la minoranza dem, la strada non sembra affatto in discesa. Al momento, Renzi per varare la sua riforma avrebbe bisogno del sostegno di Verdini e del gruppo che (forse) l’amico Denis si appresta a formare (potrebbe chiamarsi «Centro per le riforme»). Ufficialmente Verdini e i suoi non hanno ancora deciso cosa fare. In realtà le loro mosse dipendono solo da quanto saranno necessari per Renzi. Ma una riforma approvata grazie ai nuovi «responsabili», capitanati da Verdini, non nascerebbe sotto i migliori auspici. E il danno d’immagine, per Renzi, sarebbe cospicuo.

E’ vero però che sulla durezza dell’opposizione azzurra ogni dubbio è lecito. Basti dire che nell’ultima conferenza dei capigruppo è stato il forzista Romani a protestare perché in commissione Affari costituzionali maggioranza e opposizione sono ormai alla pari e a chiedere di ripristinare l’ordine aggiungendo un senatore di maggioranza. Che a porre sul tappeto un tema simile sia un capogruppo d’opposizione dice molto sulla determinazione con la quale il partito di Berlusconi si appresta a battersi contro una riforma che, peraltro, aveva già approvato in prima lettura.
Il percorso inizierà martedì prossimo, con una relazione della presidente della commissione. I primi voti non arriveranno prima del 19 luglio, quello finale è previsto entro l’8 agosto. La partita sarà difficile ma soprattutto confusa più di come non si può. L’opposto di come dovrebbe essere compiuta una modifica della legge fondamentale della Repubblica.