Alfredo D’Attorre, centravanti d’attacco contro la legge elettorale, esce dall’aula con aria soddisfatta e annuncia «il cambio di marcia» delle minoranze Pd: come c’è un avanti Cristo e un dopo, «c’è un prima dell’Italicum e un dopo l’Italicum. Da adesso inizia il dopo». Il paragone è un tantino azzardato, ma il senso è chiaro. Dopo gli insulti, i gufi e la palude, ora nel Pd c’è una minoranza nuova, si fa per dire, più piccola di quella del congresso, ma fondata sui numeri (scarsi) con cui l’Italicum viene approvato. In aula sono stati 334 i sì, a fronte di una maggioranza di governo che può contare su 410 voti: all’appello sono mancati in più di 70. L’Italicum passa a una quota pericolosamente vicina a quella 323 con cui fu approvato il vituperato Porcellum, nel 2005: appena 11 voti in più. Insomma, anche stando ai numeri, il governo Renzi ripercorre i passi del governo Berlusconi. Infine: i 38 no alla fiducia (37 per la precisione, Guglielmo Vaccaro ormai siede nel gruppo misto) si sono trasformati in 61 no all’Italicum. E qui il pallottoliere si fa più incerto. Ai dissenzienti, che ieri erano 36 perché Davide Zoggia non è potuto venire in aula per problemi familiari, vanno aggiunti quelli del misto: i 10 no (dichiarati) degli ex grillini di Alternativa libera, quello di Claudio Fava, ex Sel, Massimo Corsaro (ex Fratelli d’Italia). Più il no di Francesco Saverio Romano, forzista fittiano che non ha seguito i suoi sull’Aventino. Più qualche no sparso dagli alleati Ncd e Sc. Insomma, dalla defunta area riformista sono arrivati almeno altri 15 no, che potrebbero trasformarsi in più di venti se in realtà alcuni ex grillini, dati come transitivi verso il Pd, hanno votato sì. Insomma, per la minoranza Pd il certificato di testimonianza in vita si è trasformato in un posto «piazzato», anche se Cuperlo si affretta a sottolineare che «non abbiamo fatto alcuna prova di forza».

E ora? In cosa consiste per il Pd non-renziano (se non anti-renziano), il «dopo Italicum»? Il tentativo di sfidare l’invincibile Renzi o quello di far nascere una nuova cosa a sinistra? E qui di nuovo i discorsi si arrampicano su salite impervie, ma diverse a seconda dell’interlocutore. Roberto Speranza, visibilmente stropicciato dai tormenti di questi giorni, spiega che lui nel Pd ci lui ci resterà «fino alla morte». Qualcuno lo indica come nuovo leader dell’area riformista depurata dei «diversamente renziani» che anche alla legge hanno votato sì. Lui non ne vuole parlare: «Queste sono cose piccole, oggi è successa una cosa grave: il mio partito ha scelto un metodo profondamente sbagliato, l’Italia sta cambiando le proprie istituzioni a colpi di meno della maggioranza, ora il governo è meno forte. È questo il punto politico che ho posto a Renzi». Anche Gianni Cuperlo pattina sulla risposta: «Ora Renzi deve riflettere, abbiamo dimostrato che le regole del gioco vanno cambiate insieme». Boatos di palazzo sostengono che Renzi gli abbia offerto la direzione dell’Unità, un gesto di disgelo, o forse il tentativo di tiragli un bidone, visto che Guido Veneziani, nuovo editore del giornale fondato da Gramsci, non è esattamente un estimatore di Rilke come lui. Domenica alla festa di Bologna, dove Cuperlo era l’unico esponente della minoranza presente, Renzi ha annunciato: «Con Gianni abbiamo alcune idee bislacche sull’Unità». Cuperlo smentisce: «Sono stato presidente del partito per 28 giorni e direttore de l’Unità per 20 minuti. I tempi si fanno sempre più sincopati. L’unica cosa che ho detto a Renzi è che bisogna velocizzare il ritorno in edicola del quotidiano». Comunque sia, è chiaro che Renzi cerca di recuperare almeno un pezzo della minoranza. Perché, spiega Bersani «il dissenso è stato abbastanza ampio, il dato politico è non poco rilevante». E il dato politico è, spiega il senatore Miguel Gotor, che ora «ci sarà tempo e modo per fare una riforma del Senato in grado di controbilanciare con le opportune garanzie e poteri di controllo la “dittatura della maggioranza” che l’Italicum di fatto instaura nel sistema politico e istituzionale italiano: da oggi inizia un’altra partita».

Fin qui quelli ben piantati del Pd. Poi però ci sono quelli come Civati, con un piede dentro e uno fuori («Chiudo, in tutti i sensi», ha detto ieri ironicamente alla presidente Boldrini che gli chiedeva di finire la dichiarazione di voto in aula). Lui, con Fassina e D’Attorre, ha scritto a Renzi per per chiedere un decreto per l’assunzione dei precari della scuola e annunciare la partecipazione al corteo contro la legge Giannini. Si delinea già il prossimo no a una legge del governo Renzi. L’ennesimo no.