Piace ai partiti, spiace alle parti sociali, che fanno diluviare critiche, opposte tra loro, sull’accordo politico raggiunto ieri al Mef sulla riforma fiscale. Ora la parola passa a Palazzo Chigi, che ha già convocato i capigruppo di maggioranza per la settimana prossima e presumibilmente si deciderà a incontrare anche i sindacati che per ora non hanno visto palla. «L’accordo con noi non è stato trovato. Non siamo stati consultati. Restiamo in attesa», segnala gelido Landini per la Cgil. Altrettanto dura la Cisl: «Qualsiasi impostazione releghi i sindacati in ruolo consultivo è irricevibile».

La riforma fiscale è in realtà poco incisiva, e non poteva essere diversamente dato l’investimento esiguo: 8 miliardi, uno, al posto dei due previsti, per il taglio dell’Irap, 7 per l’Irpef. È una riforma che premia i ceti medio-alti, con reddito intorno ai 50 mila euro annui ma ignora la fascia più bassa e concede le briciole a quella medio-bassa. È infine una riforma sulla quale grava un’incognita determinate: del previsto riordino delle detrazioni, che hanno un peso enorme sulla fiscalità complessiva, si sa pochissimo. Di certo il nuovo sistema riassorbirà, eliminandolo, il bonus di Renzi, i famosi 80 euro passati poi a 100.

LA RIFORMA porta le aliquote dalle 5 attuali a 4, eliminando quella del 41% per lo scaglione tra i 55 mila e i 75 mila euro di reddito: dai 50 mila in su l’aliquota sarà per tutti del 43%. Resta intatta l’aliquota più bassa, quella del 23% per chi guadagna fino a 15 mila euro. Si tratta di 30 milioni di contribuenti per i quali non cambia niente. Il ragionamento che ha portato a questa scelta non è privo di fondamento: i più poveri sono talmente tanti che sollevarli sarebbe stato costosissimo in cambio di un incremento della busta paga invisibile anche col microscopio. Comprensibile, ma resta il fatto che chi più avrebbe bisogno di un vero effetto redistributivo è stato completamente ignorato. I redditi tra i 15 mila e i 28 mila vedono l’aliquota scendere dal 27 al 25% e anche in questo caso i vantaggi saranno insignificanti, nell’ordine di circa 21 euro al mese. Tre punti percentuali in meno, dal 38 al 35% per lo scaglione tra i 28mila e i 50mila euro che, soprattutto intorno alla punta alta, arriverà a risparmi tripli rispetto all’area interessata dall’aliquota precedente. «Alcune fasce di questo scaglione potranno risparmiare sino a 700 euro l’anno», si congratula il responsabile economico del Pd Misiani.

IL VICEMINISTRO dell’economia Pichetto spiega che avrà carattere strutturale, cioè non limitato al prossimo anno, ed è comunque il primo passo «verso un percorso di armonizzazione della progressione fiscale che prevede il superamento dell’Irap per le imprese». Al momento, tuttavia, lo stanziamento per il taglio dell’Irap è dimezzato rispetto alle previsioni della vigilia ed è dunque limitato alla tassa sulle persone fisiche, circa 850 mila tra lavoratori autonomi e ditte individuali. Salvini comunque brinda all’intesa: «Irpef più semplice e leggera per tutti, via l’Irap per le persone fisiche: la Lega è al governo per difendere famiglie e imprese». Più esuberante il plauso di Pd e Fi, che sgomitano per piazzare la loro targa. «Accolte le nostre proposte sul fisco. Saranno aiutate le famiglie in difficoltà», esulta la capogruppo al Senato del Pd Malpezzi anche se dette famiglie, per la verità, della riforma quasi non si accorgeranno. «Ricalca le nostre proposte», proclamano in coro i forzisti e hanno qualche motivo di soddisfazione in più del Pd.

A GUASTARE la festa della maggioranza sono le parti sociali, il cui verdetto è invece il pollice verso. «Sono scelte che suscitano forte perplessità perché senza visione per il futuro dell’economia del paese», attacca Confindustria che avrebbe voluto il taglio concentrato sulle imprese. Altrettanto insoddisfatta, per motivi opposti, la Cgil: «Gli 8 miliardi dovrebbero andare tutti a lavoratori dipendenti e pensionati, inoltre ribadiamo la nostra contrarietà alla riduzione dell’Irap». La riforma, senza fondi a disposizione, non poteva che avere un valore indicativo, prospettando e scegliendo un orizzonte. Il governo decisionista di Draghi ha scelto di non scegliere.