La nuova Al Qaeda in marcia verso Baghdad. Ad annunciarlo è l’Isil, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, ormai padrone di un terzo del paese. Dopo aver occupato le regioni nordoccidentali irachene – da Anbar a Ninawa fino a Salah-a-din – e aver piantato le bandiere nere della jihad islamica sui tetti di Mosul, Fallujah e Baiji, i miliziani guidati da Al-Baghdadi preparano il prossimo passo, forti del caos creato all’interno delle autorità irachene e di un esercito regolare allo sbaraglio.

In una registrazione audio fatta girare ieri, il portavoce islamista Abu Mohammed al-Adnani ha lanciato la sfida finale al governo Maliki: prenderemo Baghdad, e poi Karbala e Najaf, città sacre per la comunità sciita, uno dei target della milizia sunnita. «Marceremo su Baghdad perché abbiamo un conto da regolare», il messaggio lanciato nei 17 minuti di audio che fa tremare i polsi dell’amministrazione Washington, imputata numero uno per l’attuale caos iracheno.

Eppure ieri qualcosa si è mosso: i guerriglieri peshmerga, dopo aver annunciato martedì l’intenzione di frenare l’avanzata qaedista, hanno assunto il controllo di Kirkuk, ricchissimo centro petrolifero come il resto della provincia di Salah-a-din e per questo contesa tra Baghdad e Kurdistan. I miliziani curdi hanno ricacciato indietro gli islamisti, dopo la fuga dell’esercito regolare, ed è difficile attendersi un loro ritiro a breve: non hanno mai nascosto l’intenzione di annettere Kirkuk entro i confini dell’autonomia regionale curda.

Un piccolo successo lo registravano, intanto, anche le truppe di Baghdad, che dopo aver perso mercoledì il controllo di Tikrit – simbolo del vecchio regime, città natale di Saddam Hussein e suo ultimo disperato nascondiglio prima della morte – lo hanno riassunto ieri, garantendosi tempo per definire una strategia di difesa. Tikrit, a meno di 100 km da Baghdad, era il probabile punto di partenza dell’Isil per la marcia verso la capitale. Intanto la tv di Stato mandava in onda immagini di un presunto bombardamento governativo contro una base militare occupata dai miliziani a Mosul.

Sul fronte politico, il governo Maliki ha ricevuto ieri la prima sconfitta: la richiesta di dichiarare lo stato di emergenza e imporre la legge marziale è stata bocciata dal parlamento. Il premier non ha ottenuto il quorum a causa dell’aperto boicottaggio delle fazioni politiche sunnite e curde che temono di riconoscere ad un primo ministro già accentratore ulteriori poteri, dalla censura della stampa al controllo della magistratura, dalla riduzione della libertà di movimento alla totale autorità sull’esercito.

A livello internazionale, mentre la NATO chiarisce che non prenderà parte ad alcuna iniziativa militare, si muovono gli Stati uniti: «Abbiamo reiterato l’impegno a lavorare con il governo iracheno e i leader in tutto l’Iraq per sostenere un approccio unificato contro l’aggressione dell’Isil – ha detto Jen Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato – Siamo pronti a fornire ogni assistenza appropriata».

Assistenza che secondo Maliki dovrebbe tradursi nell’immediato invio di droni e nel loro utilizzo per bombardare le aree occupate dall’Isil. Resta da vedere se tale richiesta verrà esaudita, vista la riluttanza di Obama ad aprire un nuovo fronte bellico, soprattutto a meno di tre anni dal ritiro dallo stesso Iraq.

Il Medio Oriente è alle prese con una sfida regionale senza precedenti: i tradizionali paesi laici – dall’Iraq di Saddam alla Siria di Bashar – sono minacciati da forze religiose estremiste con alle spalle una dote di armamenti, denaro e strategia militare che mai Al Qaeda aveva posseduto prima.

Secondo alcuni analisti, il gruppo guidato da Al-Baghdadi sarebbe composto da 5mila miliziani. Un numero basso per giustificare una simile offensiva, gestita da uomini ben equipaggiati e addestrati. Subito la mente va – è il mantra del regime di Damasco – ai paesi del Golfo, che non hanno nascosto di aver finanziato, stipendiato e armato i gruppi islamisti anti-Assad in Siria.

Lo stesso pensiero ha rovinato il sonno di Obama e del segretario di stato Kerry che più volte nell’ultimo periodo hanno tentennato sulle pressanti richieste di nuove armi mosse dalle opposizioni moderate, proprio per il timore – che oggi appare più che fondato – che finiscano nelle mani degli islamisti.

Certo è che in Iraq le file dell’Isil sono state ampliate non solo dalle migliaia di prigionieri liberati in questi giorni, ma anche da miliziani di diversa appartenenza, ex ufficiali baathisti ancora fedeli al vecchio rais e milizie sunnite estremiste che con gli islamisti condividono l’obiettivo della nascita di un califfato sunnita, che spazzi via la comunità sciita. Un emirato che superi i confini per giungere alla Siria, le cui regioni orientali sono in parte roccaforti delle opposizioni a Damasco.

«Non si tratta di mero terrorismo, ma di un esercito – ha spiegato al Time l’esperta di Isil, Jessica Lewis – Stanno circondando i centri di potere iracheni. Hanno governi ombra fuori e dentro Baghdad. Non so se vogliono assumerne il controllo o distruggere direttamente le funzioni dello Stato iracheno».

Quello che appare chiaro è che quei gruppi attivi dopo il 2003 e responsabili di azioni di resistenza e attentati, grazie agli otto anni di occupazione militare Usa si sono formati nelle tattiche della guerriglia urbana, hanno individuato strategie militari efficaci su larga scala, hanno goduto di finanziamenti stabili e di una rete di comunicazione ramificata. Un terreno di coltura innaffiato dall’americana “guerra al terrore” che sta conducendo l’Iraq sull’orlo di un abisso mai vissuto prima e di cui la Casa Bianca deve assumersi l’intera responsabilità.