Negli anni Ottanta, nelle scienze sociali e nella discussione politica più teoricamente informata, il nome di Niklas Luhmann ricorreva di frequente, costantemente accompagnato da manifestazioni di rispetto e deferenza a cui raramente, però, si accompagnava l’adesione alla sua proposta analitica. In realtà, con l’eccezione di qualche isolato ambito accademico, l’autore non era particolarmente letto.
Del resto, i suoi testi, scritti in un linguaggio fortemente tecnico e incentrato sull’elaborazione e applicazione di una teoria ad alta densità di formalizzazione, non si prestavano a una fruizione occasionale. La percezione, specie a sinistra, era quella di un fautore dell’ordine, di un conservatore, ma di un «conservatore d’avanguardia» che parlava il linguaggio della teoria dei sistemi, a cui faceva capo una teoria sociale onnicomprensiva e rigorosa difficile da criticare accettandone le premesse, da prendere o lasciare in blocco, e di solito si optava per il secondo termine dell’alternativa.

NEI DECENNI SUCCESSIVI, l’interesse per Luhmann, morto nel 1998, è diminuito; certo qui e là i luhmaniani sono rimasti, ma l’impatto del suo pensiero al di fuori di tali ristrette cerchie è decisamente sfumato. E questo nonostante il suo funzionalismo strutturale incentrato sull’interazione sistema-ambiente, l’attribuzione di un carattere costituente agli effetti di comunicazione e una topologia che non assegna al «codice» politico un primato gerarchico «di diritto» ben si presti a tematizzare in maniera le dinamiche del presente liberandosi dall’ipoteca della categorie della modernità nazionale-internazionale.

IN TAL SENSO, LA LETTURA luhmaniana della modernità come processo di crescente differenziazione e autonomizzazione di sistemi e sottosistemi ha costituito il punto di partenza di riflessioni assai distanti per intenzioni e sensibilità politica dal sociologo tedesco. In particolare, si può citare Gunther Teubner e la sua proposta di costituzionalismo dal basso che guarda all’addensarsi di potenziali sociali di irritazione in grado di produrre effetti perturbativi sui media stessi dei sistemi parziali (per esempio quello economico e finanziario), sempre più autonomi e sottratti al potere «frenante» dello stato, ridefinendone i funzionamenti e le dinamiche comunicative tramite «inibitori endogeni».
A partire da tali esiti, non può che suscitare curiosità la recente pubblicazione di Protesta. Teoria dei sistemi e movimenti sociali (Mimesis, pp. 208, euro 18), un volume che raccoglie interventi di Luhmann su un tema, quello dei movimenti sociali, non certo percepito come al centro degli interessi dell’autore ma assai congeniale al «luhmanismo di sinistra» a cui si faceva accenno e più generalmente strategico in una congiuntura come la nostra, in cui la crisi delle forme novecentesche della rappresentanza politica sembra avere lasciato alla dimensione fluida del «movimento» il monopolio della militanza e della proposta politica. A un primo approccio, tuttavia, i saggi raccolti potrebbero risultare deludenti in quanto datati, ossia riferiti a un contesto politico e culturale che ci appare come un «futuro-passato» smentito dalla storia. Scritti fra il 1985 e il 1995, infatti, essi si incentrano sull’emergere della militanza femminista e pacifista nel quadro di una sensibilità ambientalista ed ecologista che appariva destinata a un’irresistibile ascesa come matrice di rigenerazione dell’agire politico.

LUHMANN APPROCCIA il tema della protesta a partire da un atteggiamento non particolarmente empatico, anche se nel corso del tempo, da un saggio all’altro, si può rilevare la maturazione di una posizione meno severa. L’aspetto senza dubbio più interessante della sua lettura consiste nell’evidenziazione di come i movimenti reagiscano alla differenziazione funzionale del sistema sociale. In tale «anacronismo», viene colto un limite alla dimensione della «protesta», che la condanna a una condizione di intrinseco «infantilismo» politico, quanto un punto di forza, costituito dal potenziale di immunizzazione che un’osservazione eccentrica è in grado di promuovere presso altri sistemi sociali. In proposito, emergono numerosi spunti analitici di indubbio interesse, che purtroppo Luhmann tende a non approfondire, spostando invece la sua attenzione su temi che al lettore attuale possono apparire di marginale interesse o legati a contingenze ampiamente superate, e questo in riferimento sia alle caratteristiche dei movimenti del nostro tempo sia degli assetti sistemici con cui questi si confrontano. Al di là della tematica su cui insiste, l’uscita di Protesta potrebbe risultare utile come stimolo per riaprire la pratica Luhmann, per ri-familiriazzarsi con una serie di ipotesi analitiche troppo frettolosamente messe da parte che, senza dubbio, possono oggi risultare utili non solo per concettualizzare gli assetti del presente ma anche come antidoto nei confronti dell’indigenza teorica o il generico eclettismo rivendicati da molta ricerca sociale contemporanea.