Emmanuel Macron, presidente della Francia, eletto con uno smilzo 24% dei voti al primo turno (al secondo liberali e buona parte delle sinistre si son buttati su di lui per evitare l’apocalisse-Le Pen) ha avuto una luna di miele elettorale piuttosto breve. I migliori cervelli della République sono indaffarati a capire come ha fatto a scendere nei sondaggi di gradimento di ben 24 punti in soli 3 mesi. Del resto non si può piacere a tutti se si hanno idee chiare e posizioni ferme, si capisce. Del resto il nostro nel 2014 si proclama «socialista», nel 2015 «liberale», nel 2016 come «non socialista», a fine 2016 «uomo di sinistra» e «liberale» allo stesso tempo. Memorabile.

A quanto pare i francesi hanno qualche difficoltà a digerire le sue meravigliose riforme. Dopo aver collezionato una bella contestazione di piazza prima di entrare in carica, appena eletto (un primato condiviso col suo amico Trump) l’8 maggio 2017, Macron ha incassato già diverse mobilitazioni da parte dei sindacati; forse non hanno troppo rasserenato gli animi una legge anti-terrorismo piuttosto liberticida (3 ottobre 2017) e un amoroso trasporto verso il presidente Usa, gioiosamente coronato dal bombardamento congiunto della Siria, anzi paiono piuttosto incupiti dai provvedimenti in materia economica.

Secondo l’Ofce (Osservatorio Francese per le Congiunture economiche) le riforme fiscali votate a dicembre 2017 favoriranno nel prossimo futuro il 2% dei redditi (quelli più alti) comportando a breve termine «la riduzione della fiscalità sul capitale, sui profitti d’impresa e l’innalzamento della fiscalità indiretta (quella più iniqua), l’Iva»; e senza migliorare più di tanto i conti pubblici, (Ofce, nota del 15 gennaio 2018).

Lo scorso 19 aprile in decine di città francesi sono scesi in strada migliaia di lavoratori delle poste, del pubblico impiego, delle ferrovie, studenti, insegnati, personale ospedaliero; una tappa intermedia del percorso deciso in una assemblea che si è tenuta luogo il 4 di aprile, il cui culmine consiste proprio nel 5 maggio: il progetto di ricondurre tutti «i piccoli ruscelli di collera ad un impetuoso fiume di speranza».

Presenti al’incontro l’economista Fredric Lordon, Francois Ruffin (deputato de La Franse Insoumise, il movimento di Jean-Luc Mélenchon) e Gaël Quirante, il sindacalista licenziato presso La Poste, la spa di servizi postali e telefonia controllata dallo Stato francese; il licenziamento era stato rifiutato per quattro volte dall’Ispettorato del Lavoro, finché l’attuale ministro del Lavoro sotto Macron l’ha infine autorizzato. Muriel Pénicaud, lo zelante ministro, con un passato alle risorse umane della Danone, ha attuato una riforma del lavoro con 5 leggi-delega che ha suscitato un deciso scontento nei sindacati, che hanno indetto uno sciopero il successivo settembre.

Il movimento francese la Nuit Debout (marzo 2016) che contestava la riforma del lavoro di Hollande non ha portato bene al governo. Adesso sembra risvegliarsi qualcosa di simile, visto che fra gli animatori che intendono fare la «festa a Marcon e al suo mondo» c’è Ruffin, il deputato della France Insoumise che col suo film Merci Patron ! aveva dato allora un discreto afflato alla protesta.

Nel Programma Nazionale di Riforme prontamente recapitato alla Ue il governo pone in luce i tre assi programmatici per liberare il potenziale dell’economia francese: «riformare il mercato del lavoro», «stimolare gli investimenti alleggerendo la fiscalità», «creare un ambiente attrattivo per le imprese e stimolare la competitività». Forse si era creata la aspettativa che tutto ciò sarebbe passato senza troppo clamore con una nuova egemonia liberale. A quanto pare il calcolo non è stato ben ponderato. La Francia si batterà.