Scappato dalla natia Eritrea con la sua famiglia durante i massacri di Om Hajar del 1976, trascorsa l’infanzia e adolescenza in campi profughi in Sudan e Arabia Saudita, Saleh Addonia vive in Inghilterra da quasi venti anni ormai, e qui, oltre a una nuova patria e identità, ha assunto anche una nuova lingua, imparata dai libri in età adulta e dopo aver perso l’udito a dodici anni. Profondi spaesamenti si riflettono nei cinque racconti della sua prima raccolta Lei è un altro paese (Casagrande, traduzione di Nausikaa Angelotti, pp.112, euro14.50), che riconnettono con trame labili e fragili i frammenti e le memorie della sua esperienza di perenne transito. Lirici e graffianti al tempo stesso, i suoi scritti scavano solchi profondi nell’animo alla ricerca di quell’umanità che la condizione contemporanea sembra sempre più spesso negare ai suoi «esuli in fuga». L’autore sarà ospite a Book Pride, a Milano, per dialogare – domenica 25 marzo – con Vanni Bianconi e Lara Ricci.

I giovani protagonisti dei suoi racconti sono esiliati, rifugiati, e richiedenti asilo all’ossessiva ricerca di «Lei» (di una donna, di un amore o più genericamente di calore umano)…
L’amore è inesistente, sempre inseguito ma difficile da ottenere nelle loro condizioni. Le relazioni umane sono labili, velocemente costituite e altrettanto velocemente dissolte, spesso nascono per necessità più che per affetto. Le famiglie sono definite dalla loro assenza ma sono in generale le famiglie eritree musulmane in esilio, che cercano di adattarsi alle norme dei paesi «ospitanti». Il sesso per questi giovani non esiste a livello pratico ma è un’ossessione, una privazione, qualcosa da ricercare costantemente e che, a volte, conduce anche alla morte.

Tutti i personaggi dei suoi racconti (non solo quelli nei centri di detenzione in attesa di giudizio) sono soggetti a un senso di alienazione e apparente dislocazione. Avverte personalmente questa sensazione e crede che questa sia diventata la condizione contemporanea a livello sociale e personale?
Personalmente, non ho mai provato un senso di appartenenza sin da quando ho iniziato a vivere in campi profughi, e prima ero troppo piccolo per ricordarmene. E soprattutto la perdita dell’udito ha raddoppiato questa alienazione. Per me è naturale lavorare in queste condizioni. Inoltre, se guardiamo il mondo oggi, con i costanti movimenti di masse da un luogo all’altro, particolarmente verso le grandi città, questa alienazione è visibile e palpabile. Io faccio parte di questo mondo e rifletto questo straniamento nella mia scrittura.

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Quali ricordi conserva delle esperienze traumatiche della sua infanzia e adolescenza e come le ricrea nelle sue narrazioni?
Molti di quei drammi sono avvenuti quando ero molto giovane e oggi – più che traumatici – li immagino in forma di avventure. Come quando fui costretto a fuggire da Keren (in Eritrea) verso il Sudan per via dell’assedio dei ribelli. O quando, un mattino presto, siamo stati costretti ad abbandonare la città sudanese di Kasala per andare in un campo rifugiati. Non ricordo il massacro di Om Hager. Sebbene fossi lì, l’ho sentito raccontare da altri, inclusa mia madre. Il solo ricordo che veramente detesto è di quando sono diventato sordo. Questo non posso dimenticarlo perché ha impresso sul mio corpo un tatuaggio indesiderato che non potrà mai essere cancellato. Non mi piace, eppure devo imparare a conviverci ogni giorno. Tutti quei ricordi, in un modo o l’altro, trovano spazio e diventano materiale per il mio lavoro.

Dopo queste fughe e passaggi, lei vive ora in Inghilterra da oltre venti anni, come percepisce la sua nazionalità e cosa ne pensa delle definizioni di «rifugiato», «straniero», «forestiero» e «migrante»?
Sebbene abbia sempre creduto di essere eritreo, la verità è che non penso più di essere tanto eritreo in quanto a cultura, tradizione e lingua. Non lo so più come o cosa mi sento. La mia identità è stata lentamente cancellata e non me ne dispiaccio più di tanto. L’Arabia Saudita per me è stata solo un transito, non mi ci sono mai ambientato né ho mai avuto amici lì, ma conservo dei ricordi. I miei ricordi d’infanzia più belli sono quelli dei campi profughi in Sudan. Non vorrei tornarci, sono spazi temporanei, anche se esistono ancora. Mi piace andare avanti e guardare oltre. Anche se essere rivolti verso il futuro, a volte, è doloroso. Amo Londra. Apprezzo l’anonimità che mi regala a tal punto che scrivo liberamente senza dovere niente a nessuno. Recentemente ho iniziato a camminare per le sue strade senza meta e ho scoperto la città. E questo mi rivela il suo carattere e me la fa conoscere sempre più, passo dopo passo. In quanto agli aggettivi «rifugiato», «forestiero» o «migrante» sono etichette con cui ho dovuto imparare a convivere. Mi sarebbe piaciuto di più essere definito «eritreo espatriato», ma un’etichetta può essere fatta di una parola sola! E comunque una cosa è quello che gli altri pensano di te e un’altra quello che pensi di te stesso.

Scrive in inglese, che non è la sua lingua madre. Quanto questa è stata una sua scelta e quanto influenza il suo processo creativo?
Non ho avuto scelta e scrivere in inglese è stata una necessità. In realtà, avrei preferito non doverlo fare. Da quando sono arrivato a Londra, quasi ogni cosa che mi capita di leggere è in inglese e la maggior parte dei miei amici sono stranieri, quindi necessariamente l’inglese è l’unica lingua con cui posso comunicare ora.
Ho imparato questa lingua leggendo, e a ogni libro dedicavo dalle due alle sei letture a distanza di settimane o mesi l’una dall’altra. Ogni volta il mio inglese era migliorato un po’ e ogni volta la mia comprensione del libro era maggiore. Quando scrivo, lo faccio molto lentamente perché le parole non fluiscono automaticamente in inglese, spesso dovendo esprimere un’idea siedo a lungo davanti al computer e le parole non arrivano in successione ma in frammenti. È frustrante e nasce una battaglia tra i miei pensieri e la frase o il paragrafo. Così, smetto di lavorare e mi dedico a qualcos’altro, come leggere o pensare. Il problema è non poter controllare il pensiero e questa sensazione può andare avanti per ore.
Tuttavia anche questo ritardo fa parte dell’atto creativo per me. Forse è quello che sosteneva anche Marcel Duchamp riguardo l’uso del ritardo. Inoltre, devo ancora padroneggiare la lingua inglese. Non ho mai provato a sperimentare con la lingua inglese perché andrebbe al di là dei miei obiettivi. Cerco solo mezzi per esprimere le mie idee e pensieri. Non desidero scrivere in maniera meravigliosa perché non ci riuscirei. Faccio sempre il paragone tra i pittori astratti e quelli realisti.

E che relazione ha con le sue «altre» lingue?
Non parlo più tanto l’arabo come facevo prima, né lo leggo. A volte, quando cammino per strada o sono su un autobus, avverto che qualcuno sta parlando arabo o tigrigno (avverto ma non posso sentirlo a causa della mia sordità) e vengo preso da nostalgia. Sono arrivato a pensare in inglese perché la maggior parte di quello che leggo è in questa lingua. Quando penso alla religione, lo faccio per lo più in arabo, ma non ho proprio più il tempo di leggerlo. Non credo comunque che la lingua sia una scelta. Dopo tutto, un bambino non sceglie mai quale lingua parlerà. È sempre meglio trovarne una quando sei giovane. In tale maniera, cresce nel tuo orecchio e ti fa diventare la tua lingua. E la lingua è memoria.