Anni fa, era il ’98, quando Thomas Ostermeier arrivò a Roma intorno allo spettacolo aleggiava già un’aura del mito: Shopping&Fucking, dal testo di Mark Ravenhill (lo presentarono al Teatro India, era la stagione della direzione di Mario Martone) aveva fatto il giro del mondo, come la fama di questo geniale ragazzo della scena tedesca che poco dopo verrà chiamato alla direzione artistica della Schaubühne di Berlino. Da allora è passato molto tempo, nel mezzo ci sono decine di spettacoli, l’esperienza come «artista associato» al Festival di Avignone, il Leone d’oro alla carriera alla Biennale Teatro di Venezia lo scorso anno.
Altissimo, gentile, un po’ stralunato, beve il caffè di corsa, subito pronto a rispondere alle domande, anche se l’occhio scivola sull’orologio: «Devo provare» dice quasi scusandosi. È appena arrivato da Berlino, infatti, il volo era in ritardo, ci sono mille cose da controllare.

Alla Schaubühne Ostermeier sta lavorando a una nuova produzione, Little foxes di Lillian Hellman, con Nina Hoss, l’attrice prediletta dal nuovo cinema tedesco, protagonista dello straordinario La Vita di Barbara di Petzold. Lo spettacolo «romano» è invece Hedda Gabler, nel cartellone del Roma Europa festival – ancora oggi (ore 21), domani (ore 19)e domenica (ore 17) al Teatrto Argentina di Roma – tra i suoi successi «storici»; un allestimento del 2005 che continua a conquistare le platee nel mondo per quel suo modo di tradurre nel contemporaneo un classico moderno del teatro. L’eroina di Ibsen, autore che Ostermeier ha esplorato più volte – l’ultima con Un nemico del popolo presentato alla scorsa Biennale teatro – diviene nell’adattamento curato insieme al drammaturgo Marius von Mayenburg, una quarantenne di oggi, frustrata e incapace di trovare spinte con cui frantumare la monotonia della propria esistenza.

Ci parli del suo lavoro sul testo di Ibsen.

L’idea di cambiare l’età di Hedda è per me un punto fondamentale. Anche per questo il casting, la scelta degli attori nella compagnia con cui lavorare, era molto importante. Non siamo davanti a una donna giovane, che ha preso la cattiva decisione, ma a una quarantenne che ha sposato l’uomo ricco per sistemarsi. E quando le si ripresenta l’antica fiamma, e all’improvviso potrebbe lasciarsi alle spalle tutto quel mondo che odia, Hedda si chiude in casa. Ha paura, non vuole correre il rischio della povertà, dell’insicurezza … Ma per questo si odia, e odia anche gli altri. È una donna egoista e pericolosa. Era molto importante lavorare sulla natura del personaggio, e credo che questa Hedda sia diversa da molte altre. Quello che mi interessa in lei è la sua anima contemporanea. Lo stesso vale per le architetture sceniche o per i costumi.

È un aspetto quello della contemporaneità nei testi anche «classici»

che attraversa tutta la sua ricerca.

Per me la modernità non è una chiave di interpretazione. É la storia che è contemporanea, io come regista, gli attori dobbiamo rendere visibile questa sostanza attraverso un comportamento, il modo di muoversi, di parlare. In questo caso volevo costruire un ponte tra la società alla fine del XIX secolo, con le paure e le speranze della borghesia, la classe che ha inventato quel mondo, e il nostro presente producendo una sorta di shock. Abbiamo ancora gli stessi valori, e gli stessi problemi, che nel processo del neoliberismo hanno trovato il modo di riaffermarsi. Nazione, religione, famiglia, militarismo sono tornati con prepotenza dopo essere stati messi in discussione negli anni Sessanta e Settanta. Ma perché tornano proprio oggi? Per me è importante capirlo, ed è questo che cerco nel testo di Ibsen.

Gli attori sono un’altra componente essenziale del suo teatro. In che modo ha lavorato insieme a loro, a cominciare dalla protagonista, Katharina Schüttler?

Conosco il suo talento come quello degli altri, sono tutti nella compagnia, lavoriamo insieme da anni, possiamo quasi definirci una famiglia. Nel processo creativo per me è indispensabile il confronto con gli attori, sono molto presenti, rispondono alle domande che pongo anche radicalizzando le mie proposte. E si mettono in gioco completamente. Ogni regista che si pone seriamente nel suo ruolo sa che è fondamentale coinvolgere gli attori ascoltando le loro idee.

Parliamo di «Hamlet in Palestine», il film che presenta qui a Roma.

In realtà è un work in progress, dobbiamo ancora montarlo. Nicolas Klotz aveva già ripreso un altro mio spettacolo, c’era stata una buona intesa, lui sa esserci senza però interferire in alcun modo con le prove. Si muove con molto rispetto. Siamo andanti a Ramallah, eravamo in tournée, e ho voluto cercare le tracce del mio amico Juliano Mer Khamis, un uomo straordinario, un regista, un attore, che ha fondato il Teatro di Jenin, ucciso da ignoti. É un modo per indagare le cause di questa morte.

Tornando a Hedda. Questa lettura mette in gioco anche la sua generazione.

Chi ha trentacinque o quarant’anni è spesso debole, forse per il sentimento diffuso di fragilità sociale, la crisi economica … Per questo cerca risposte certe, fa scelte di opportunismo, ritorna a quei valori del passato di cui parlavamo prima. Si cercano successo, denaro, bellezza, molte persone miei coetanei si chiudono nella famiglia o nel benessere, anche se tutto questo non gli basta. Hedda è caduta nella trappola materialistica della società, ha scelto un uomo ricco per debolezza un po’ come accadeva negli anni passati, come potevano fare i nostri genitori … Forse se intorno a lei ci fossero dei movimenti di lotta ne farebbe parte, ma non ce ne sono. Piuttosto somiglia a una casalinga disperata, e il suo unico modo per reagire è dare fuoco alle relazioni, far esplodere delle bombe. È come se fosse una terrorista.