Anche in questo cinquantenario del ’68, a fronte del profluvio di chiacchiere e rievocazioni, spesso tutte uguali, si avverte un senso di appiattimento, di insoddisfazione per l’occasione persa per riprendere in mano tutta quella straordinaria turbolenza politica e creativa e farne qualcosa di utile anche per i nostri tempi.

Non che l’industria cultural-mediatica non si sia data da fare, anzi, ma di fronte a pubblicazioni, ristampe, chiacchiere e documentari si ha quasi sempre l’impressione di girare attorno ai soliti cliché senza riuscire a cogliere nel segno e a stabilire un collegamento fruttuoso. Ci sono le debite eccezioni, ovviamente. E tra questa una graphic novel davvero straordinaria che ci restituisce l’immaginario, i colori, ma anche le paure di quell’epoca e in particolare di quell’anno: La mia cosa preferita sono i mostri (Bao, p. 416, € 29). Opera prima di Emil Ferris, ex illustratrice e scultrice di giocattoli che quegli anni li ha vissuti davvero, a Chicago. Con quest’opera si è guadagnata il plauso di numi tutelari del fumetto americano come Art Spigelman, oltre a vincere due Eisner Awards, i più importanti premi del fumetto americano.

La mia cosa preferita sono i mostri è il diario illustrato di una bambina, Karen Reyes, appassionata di creature comunemente definite degeneri e in particolare di licantropi, lupi mannari. Ha una immaginazione fervida, ridondante, alla realtà preferisce i sogni, al giorno, la notte, salvo poi svegliarsi e compiacersi di essere ancora viva. Il lupo mannaro, il diverso, rincorso per tutta la notte dalla folla inferocita con accette, forconi, arnesi di ogni tipo, è riuscito a fuggire. E siccome Karen sente di essere lei stessa il lupo mannaro in questione, si meraviglia di non avere alcuna traccia di sangue sulla vestaglietta.

Ovviamente in tutto ciò c’è anche un briciolo di sociopatia, come spiega lei stessa in questo brano:” Anche se ero sveglia sapevo che la G.E.N.T.E. mi dava la caccia e che un giorno sarebbe calato il sipario, per me. Non che abbia paura che mi uccidano, no, la cosa che mi manda ai pazzi è che potrebbero farmi diventare come loro: G.E.N.T.E. = Grigi, Egoisti, Noiosi, Tristi ed Ebeti.”

Sia per questa inclinazione a starsene in disparte a vagheggiare mostri e avventure, sia per la sua tenerezza, Karen è guardata con sospetto dai suoi compagni di scuola. Praticamente emarginata da quasi tutti, è spinta in questo modo a rafforzare la sua fede totale nella fantasia.

Il suo nume tutelare è il fratello maggiore, Deeze, artista visivo, frequentatore di bordelli e donne con una voracità impressionante. Oltre a farla stare ore nel suo studio mentre lavora alle sue opere, Deeze è anche responsabile della sua passione per i mostri perché ogni mese le regala una rivista di fumetti chiamata “Ghaslty”, che tradotto significa orribile.

Ad un certo punto nella vita e quindi anche nel diario di Karen, inizia un’altra storia.

Il 14 febbraio 1968, Anka Silverberg, una bellissima ebrea tedesca che abitava nell’appartamento sopra quello dei Reyes, viene trovata morta con un colpo di proiettile alla gola. Il marito, il signor Sam, di professione batterista, era fuori Chicago per un concerto, gli inquirenti parlano di suicidio, ma i conti alla piccola Karen non tornano:” Nella sua vita Anka Silverberg ne aveva schivate di pallottole… Allora perché avrebbe scelto di morire stando ferma sulla traiettoria di quella lì? Ma poiché le due porte di casa erano chiuse dall’interno la polizia ha detto che si è suicidata… Ma io non ci credo!”

Karen indossa non solo metaforicamente il trench e il cappello dell’investigatore privato, quello dei Marlowe e dei Sam Spade.

L’universo degli uomini lupo incontra quello dei piedipiatti, delle femme fatale, dei misteriosi assassini e delle doppie, triple verità.

Due culture neglette, quella dei fumetti di mostri e quella degli hard-boiled, dei romanzi polizieschi si intrecciano e si contaminano a vicenda.

La caccia al colpevole e la caccia al mostro diventano una sola cosa.

Karen riesce a convincere Sam Silverberg a farle ascoltare dei nastri elettromagnetici nei quali Anka ripercorre tutta la sua vita.

E così la ragazzina scopre che dietro quella donna bellissima, che ogni giorno le offriva da mangiare c’è una donna dal passato tormentato. Una sopravvissuta ad un’epoca tremenda e terribile, piena di mostri. Ma non i licantropi e i ragni giganti vagheggiati da Karen. No si tratta di mostri realmente esistiti. Anka è infatti una ebrea tedesca, vissuta nella rutilante Berlino degli anni ’20, quando la fragile costruzione della repubblica di Weimar viene assaltata dalla violenza nazista e infine rovesciata.

Anka allora è molto giovane ma, come ha scritto Karen, ne ha già passate tante. E’ stata ospite di un certo signor Schutz, un uomo molto abbiente disposto ad aiutarla solo se lei accettava di interpretare il ruolo della ragazza cattiva e combina guai ed essere sculacciata. Poi finisce in uno strano convento dal quale riesce ad evadere, è il termine giusto, per miracolo.

Improvvisamente, come probabilmente capitò a molti, si ritrova con una stella gialla cucita sul cappotto. Vede lo sguardo della gente cambiare, farsi più duro o, in alcuni casi, più compassionevole.

Ma la tragedia sta galoppando a grande velocità e Karen si ritrova chiusa in un vagone stipato di gente affamata, a cui è stato appena tolto tutto.

Si tratta dunque di ri-conoscere una verità sepolta, una verità e una storia

La mia cosa preferita sono i mostri riesce a spostare l’asticella delle possibilità del fumetto contemporaneo ancora un po’ più in là, riuscendo a costruire un racconto in cui dentro alla rievocazione del ’68 e dei suoi guizzi, è contenuta anche la storia di come una generazione si è ribellata alle verità precostituite dei padri e si è messa alla ricerca di un più autentico, e certo anche più doloroso, rapporto con il passato.