«La grande bellezza» del cinema italiano è anche che mentre fra i critici si scatena una curiosa resa dei conti in merito a chi ha vaticinato il trionfo del film di Paolo Sorrentino ai Golden Globes e chi ha – e in che misura – «remato contro», in sala escono, in silenzio e senza troppo clamore, due film, scomodi, scabri, poco simpatici, gonfi d’un amore non conciliato che i cantori dell’esistente a stento noteranno, e che probabilmente, ma ci auguriamo di no, scivoleranno via nell’indifferenza generalizzata (ma meglio sarebbe dire «medi(a)zzata»). Uno è Sangue di Pippo Delbono (ci torneremo), l’altro è La mia classe di Daniele Gaglianone, opera civile, politica e felicemente sbilenca, irrisolta, eppure audace, coraggiosa, spudorata nella propria voglia di sbattere la testa contro il muro di tutto quanto la società civile nasconde sotto il tappetto della falsa coscienza, delle buone maniere, dell’impegno di facciata.

Gaglianone, condannato a essere un «giovane» cineasta nonostante sia attivo ormai dal lontano 1989, ha attraversato tutte le fasi della difficile rinascita del nostro cinema, dribblando documentario e finzione, sperimentazione e video. Uno che si muove, Gaglianone; uno cui dobbiamo, tanto per dirne una, un film come Rata nece biti – Non ci sarà la guerra, straordinario e fluviale lavoro sulla guerra nella ex Jugoslavia. Eppure, nonostante la fatica del continuare a fare cinema in un paese dove ti smontano Ruggine anche quando la gente continua ad andarlo a vedere, e nel quale Pietro resta un oggetto non identificato, non molla la presa. Anzi, rilancia. La mia classe, realizzato in due settimane di riprese, è un film d’urgenza rara. Come un demo punk di una band che incide tutto in diretta e in una sola session. Volume a palla, cuore gonfio e tante cose da dire. Ma se anni di cinema son serviti a qualcosa, Gaglianone sa ormai come contenere furia e passione e articolare il proprio dire. Come gli Hüsker Dü in musica, ha imparato a gestire l’urgenza e la rabbia intrecciandola nella pratica di un cinema che s’interfaccia con il rischio rifiutando di percorrere i sentieri noti.

La mia classe, per dirla con formule note, è un «docu-fiction», ossia un film di finzione che accoglie nel proprio tessuto elementi di cinema del reale. Valerio Mastandrea è un maestro che insegna l’italiano a una classe di studenti «extra-comunitari» rendendosi conto della propria lotta vana. Gli studenti s’aggrappano a lui come a uno dei pochi barlumi di umanità di un paese che, invece, nonostante i buoni propositi, non ne vuol sapere niente di loro.

Il momento della verità giunge sotto forma di un permesso di soggiorno non rinnovato. La troupe e il cast si trovano di fronte a una scelta vitale: continuare o abbandonare tutto? Ed è in questo snodo che il film di Gaglianone tocca con chirurgica precisione il nervo scoperto del cosiddetto cinema d’impegno civile (e si vedono dei soldi, dettaglio non secondario…). Si fa cinema dalla parte della legge o si resta dalla parte della giustizia? Assumendo in pieno le responsabilità del limite del suo fare, Gaglianone esplode il fare nel limite, accogliendolo come perimetro scomodissimo del suo agire. Quasi mai il cinema civile italiano è giunto a ragionare a tale prossimità dei limiti dei propri propositi. Gaglianone non si fa illusioni, e mostra, letteralmente, le contraddizioni di chi interviene con il cinema nel reale. Gli scambi fra il regista e Mastandrea (un miracolo di economia del segno, quest’uomo) sono esemplari nel mettere in scena la disperazione di chi è costretto a notare il mare che separa l’abisso delle intenzioni dall’efficacia del proprio agire.

Film potente, scabro, severo e dolente, La mia classe, nel confermare la «giustezza» del talento di Gaglianone, ne conferma anche la… grande bellezza.