L’Accabadora è un progetto covato a lungo da Enrico Pau. Un progetto che ha assorbito ben sei anni della vita del regista cagliaritano e che è diventato realtà grazie a una coproduzione fra l’italiana Film Kairós e l’irlandese Mammoth Films. Un progetto che ha allontanato Pau dalle ambientazioni urbane e di periferia di Pesi leggeri e Jimmy della collina per avvicinarlo a un mondo magico, ancorato profondamente in quel sud lontano e mitico raccontato da Ernesto De Martino.

 

 

«Ho cominciato a pensare a questo film dopo avere letto, anni fa, un saggio dell’anatomo-patologo Alessandro Bucarelli che raccontava con la chiarezza del saggio scientifico il ruolo sociale dell’Accabadora, della donna delegata nei villaggi della Sardegna a dare la «buona morte»». In questo senso, osserva il regista, «la Sardegna degli anni Quaranta non è lontana dalla Lucania studiata da De Martino dieci anni dopo. Sono luoghi che io immagino vicini, facenti parte di un ’sud immaginario’ che non esiste geograficamente, ma i cui confini una volta varcati mostrano forme di esistenza simili: vita agropastorale, riti di un mondo in cui si alternano il lavoro e le tante forme di una religione, di riti di passaggio, minacciati continuamente dalla superstizione, da quel mondo magico che De Martino studiò in uno dei suoi libri più importanti, Sud e magia».

 
Interpretato da Donatella Finocchiaro, dolente e intensa, probabilmente nel ruolo più complesso della sua carriera sinora, da Barry Ward (apprezzato in Jimmy’s Hall di Ken Loach) e da Carolina Crescentini e Sara Serraiocco (scoperta in Cloro), il film, sceneggiato in collaborazione con Antonia Iaccarino a partire da un soggetto elaborato con Igort, rappresenta un nuovo tipo di sfida per Enrico Pau.

 

 

Un film in costume, d’ambientazione storica, rievocante uno dei momenti più drammatici di Cagliari durante la Seconda guerra mondiale: i bombardamenti che hanno sventrato la città e i cui segni sono in parte visibili ancora oggi. «Era importante per raccontare questo passaggio nella vita di una donna come Annetta, la protagonista di L’Accabadora, rifarsi alla storia, quella collettiva della nostra terra che negli anni quaranta visse un momento tragico, quello della guerra. Un momento che segna un passaggio che ha qualcosa di paradossale, perché è stato il modo traumatico, tragico, nel quale la modernità arrivò in alcune zone della nostra isola, soprattutto a Cagliari, ma anche in piccoli remoti paesini del Campidano, la vasta e assolata pianura che circonda Cagliari. Le bombe, moderna tecnologia di distruzione, piombarono sulla vita della gente, e in molti morirono; eppure fu anche un momento di passaggio, perché tutta quella distruzione portò un cambiamento profondo, segnò una accelerazione della percezione del tempo e dello spazio. Annetta si trova esattamente in questa condizione: smarrita in mezzo alla città ferita, una città che pagò un prezzo altissimo alla guerra, un prezzo di vite umane e di distruzione architettonica elevatissimo».

 

 

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Narratore di storie maschili, Pau, attraverso la triangolazione delle sue tre protagoniste, tratteggia un ritratto particolare dell’Accabadora, figura mitica e insieme leggendaria della cultura tradizionale sarda. «La protagonista del film, Annetta, è nata e cresciuta in un mondo arcaico, ma lontana anni luce dallo stereotipo dell’Accabadora così come la tradizione, le tante voci del popolo e i pochi studi esistenti, ma nessuno di antropologia ufficiale, ce l’hanno consegnata: una donna anziana, esperta di medicina naturale, isolata dalla comunità, capace di dare la ’buona morte’ ai malati terminali, in quel mondo arcaico nel quale non esistevano farmaci ma esisteva, forse, una forma di pietas, istintiva, che richiedeva però una certa competenza delle forme possibili, di ’tecniche’, con le quali aiutare il malato, di ogni età, ma anche i bambini, alla fine delle sofferenze e dell’agonia». Pau afferma, invece, di avere voluto immaginare la sua protagonista, pur proveniente da un mondo ancestrale, come l’emblema della donna moderna, pronta al cambiamento, «pronta a immaginare una vita nuova».

 

 

«L’unica verità che ci ha guidato nel corso della nostra narrazione», continua Pau, «è quella del personaggio, sinceramente non avevamo nessuna intenzione di recuperare una verità storica o antropologica della figura dell’Accabadora. Annetta è colta in un momento di passaggio importante da una condizione a un’altra, da un mondo sospesonelle sue forme immutabili, all’incertezza, all’indeterminatezza di una nuova condizione della quale la guerra è il segno più drammatico e violento».

 
Da angelo della pietas e della buona morte, Annetta «che ha sempre vissuto vicina alla morte, al dolore, ritrova se stessa, paradossalmente, in mezzo alla distruzione della guerra». «Il nostro è un omaggio a coloro che anche durante i bombardamenti continuarono a vivere dentro le città», prosegue Pau, «un omaggio a coloro che continuarono a conservare umanità in mezzo all’assurdità della guerra. Questo è Annetta, il bozzolo, che sta per prendere forma, di una donna moderna, una donna che ha nascosto il suo corpo, ancora bello, i suoi affetti, i suoi desideri, la sua capacità di amare gli altri e che è costretta dalla Storia, quella con la s maiuscola, a prendere atto che per vivere bisogna scegliere, decidere. Come diceva Tolstoj, ’per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare da capo e buttar via tutto, e di nuovo ricominciare a lottare e perdere eternamente. La calma è una vigliaccheria dell’anima’».