Mentre Milano si agghindava al nuovo in attesa dell’inaugurazione di Expo 2015, il Teatro alla Scala si apprestava a recuperare una vecchia tradizione. Dal secondo dopoguerra era consuetudine duplicare la soirée di inaugurazione della stagione lirica (il 7 dicembre a partire dal 1951) con un’altra soirée in concomitanza con l’apertura in aprile della Fiera Campionaria: a entrambe prendevano parte le istituzioni nazionali e locali e il bel mondo. Con grande pompa di presenze, tra cui l’ex presidente della repubblica, il presidente del consiglio, quello della regione, il sindaco di Milano, accompagnato dalla solita parata di star e starlette del mondo dello spettacolo, è andata in scena il 1 maggio Turandot di Giacomo Puccini.

La bacchetta era quella del neodirettore musicale Riccardo Chailly, l’allestimento quello del 2002 di Nikolaus Lehnhoff (regia)-Raimund Bauer (scene)-Andrea Schmidt-Futterer (costumi) del Festival delle Canarie, che commissionò a Luciano Berio la riscrittura del finale dell’opera basandosi su tutti gli schizzi lasciati da Puccini prima di morire (quello tradizionale di Franco Alfano ne aveva usati solo 4) e la direzione allo stesso Chailly. Si è dunque riformato un team di successo, che ha consentito, dopo ben 13 anni, al finale di Berio di debuttare a Milano. Turandot è una fiaba teatrale  che narra la metamorfosi di un’anima reclusa, dal distacco siderale dell’inizio alla capitolazione finale in seguito a un irresistibile assedio d’amore: il soggetto, ricavato dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi (1762), adattato da Renato Simoni e messo in versi da Giuseppe Adami, è sostanzialmente estraneo alla tradizione operistica italiana tra Otto e Novecento, incline al realismo.

Puccini si addentra nel clima esotico e meraviglioso della trama aderendo più che mai alla concezione wagneriana del dramma musicale come discorso continuo senza divisioni in forme chiuse e inseguendo una densità armonica inaudita. La massiccia polifonia di accordi della partitura è attraversata e scossa da una messe di intervalli dissonanti al limite del diatonismo. Un limite che Puccini, come Strauss, mette a fuoco senza attraversarlo mai del tutto, confinandosi nei territori iridescenti di una politonalità esasperata, configurando la partitura di Turandot come un continuo alternarsi di tensione e distensione, di tafferuglio orchestrale e paradisi melodici intravisti tra le rovine dell’armonia tradizionale. In mezzo a frequenti sismi sonori, le melodie malinconiche di Liù si stagliano come oasi di riposo: un riposo indispensabile perché possa risaltare l’audacia violenta dell’operazione.

Chailly si muove attorno a quel limite, sottolineando ciò che Puccini ha intravisto al di là piuttosto che i moduli della tradizione evocati per non smarrirsi e spingendo l’orchestra della Scala a distillare suoni di rara espressionistica intensità. Nina Stemme (Turandot) porta in questo progetto la rocciosità evocativa del canto wagneriano e straussiano in cui è maestra, di tanto in tanto perdendo però di vista i tratti essenziali del canto italiano (in particolare il legato), gli stessi in cui eccelle l’italianissima Maria Agresta (Liù), perfettamente a suo agio nel dispensare filati e mezze voci; poco rifinito e troppo chiaro Aleksandrs Antonenko (Calaf), pur nell’invidiabile facilità di ascendere alle note più alte; intenso e corposo come sempre Alexander Tsymbalyuk (Timur), brillanti Angelo Veccia, Roberto Covatta e Blagoj Nacoski (Ping, Pong e Pang).

Scene e costumi sono intelligentemente in bilico tra invenzione e citazione di grandi allestimenti del passato (l’elevatissimo oculo attraverso cui si mostra l’imperatore sembra il negativo della sfera inventata da Hugo de Ana nel 1996, il copricapo di Turandot richiama quello dell’allestimento scaligero del 1958 con Birgit Nilsson). Suggestiva la resa del palazzo imperiale di Pechino in forma di fortezza rossa chiodata.