La lunga storia dell’agricoltura possiede, di certo, il fascino e la meraviglia delle grandi narrazioni. Nelle sue lente trasformazioni come nel suo costante ridefinirsi, questa pratica plurimillenaria (che racchiude in sé tanto la straordinaria grazia di un’arte ordinatrice, quanto la dura necessarietà di un sistema di produzione alimentare) non ha solamente contribuito in maniera sostanziale allo sviluppo delle società e delle diverse culture umane, ma ne ha significativamente determinate le mutazioni lungo il procedere dei secoli.

Così, provvedendo a rinnovare in maniera sensibile il rapporto dell’uomo con il cibo e con la natura stessa, la nascita dei sistemi di coltivazione e il loro progredire hanno contemporaneamente portato alla costituzione di nuove cronologie e alla definizione di nuovi ordini sociali, la cui centralità si è manifestata – in primo luogo – con la costituzione di un complesso sistema di divinità, di riti e di cerimonie dalla funzione regolatrice, celebrativa e propiziatoria (le cui tracce non sono ancora andate interamente dissolte, neppure nell’occidente contemporaneo).

Parlare di agricoltura significa allora mettere in campo una imprescindibile riflessione riguardo a quelle infinite e graduali evoluzioni che hanno segnato il percorso del genere umano dal suo passato più remoto sino ai giorni nostri. Al contempo, impone di richiamare alla mente le molte trasformazioni che hanno investiti i sistemi economici e politici, gli stili di vita e quelle che sono le modalità stesse di pensiero dell’essere umano.

Ripercorrere la storia dell’agricoltura per ripercorrere una storia dell’uomo. L’operazione realizzata da Stefano Bocchi (docente di agronomia e coltivazioni erbacee presso l’Università degli Studi di Milano e curatore scientifico del Parco della Biodiversità per Expo 2015) si rivela straordinariamente attuale e acuta, per la sua capacità di esplorare in maniera originale un argomento tornato a interessare fortemente – nel corso degli ultimi anni – la stampa, il mondo politico e la società civile. Un tema caldo il cui dibattito rischia spesso di rivelarsi improduttivo, arenato com’è attorno a contrapposizioni in fin dei conti artificiose (in quanto animate – a ben vedere – da posizioni che seppure contrastanti riescono difficilmente a rivelarsi alternative, perché ideate in relazione a un medesimo sistema produttivo).

Zolle. Storie di tuberi, graminacee e terre coltivate (Raffaello Cortina Editore, pp. 200, euro19) possiede il fascino comune a tutte quelle narrazioni capaci di tenersi, con abile agilità, in perfetto equilibrio tra la ricchezza e la precisione contenutistica della scrittura scientifica e la piacevolezza compositiva della forma narrativa. Articolato in sette differenti racconti, il volume descrive (come in un ritratto efficacissimo, seppure appena tratteggiato) quella che è stata la lunga evoluzione del mondo agricolo, dalla origine e dalla sua primaria diffusione, sino alla novecentesca rivoluzione verde e alle sue più recenti trasformazioni.
Sebbene si tratti di una ricostruzione dichiaratamente e volutamente incompleta, è proprio grazie alla sua strutturazione cronologica che questo lavoro riesce a inquadrare con efficacia le problematiche principali del panorama agricolo contemporaneo.

Emerge così – con una evidenza forse ancora maggiore rispetto a quella immaginata dall’autore stesso – una situazione di sostanziale inconciliabilità tra quella che è la dimensione reale dell’universo agricolo contemporaneo e la percezione che – in maniera culturalmente diffusa – si ha dello stesso, come di un sistema largamente riconducibile a un immaginario tradizionale (e, forse proprio per questo, fortemente anacronistico).

Caratterizzata da una esasperata specializzazione delle colture, da lavorazioni sempre più intense, dall’introduzione massiva di fertilizzanti chimici e dall’abbandono del sistema tradizionale della rotazione, oggi «l’azienda agraria è programmata e gestita al pari di un processo industriale, al cui interno piante e animali svolgono il ruolo di microaziende o componenti fornitrici di output che sono incrementati aumentando gli input. L’efficienza di tali componenti viene migliorata manipolandone i geni; l’ambiente dove esse sono collocate viene strettamente controllato».

Come raccogliendo – seppure non integralmente – il discorso messo pioneristicamente in campo (oramai molti decenni fa) da Giovanni Haussmann, l’autore analizza con rapida precisione quella che è stata una trasformazione delle tecniche e degli strumenti di produzione, ma prima ancora e soprattutto un radicale cambio di paradigma. Cambiamento, questo, reso possibile da una significativa deriva antropocentrica che sembra strutturare, sin dalle fondamenta, non solamente la società occidentale contemporanea.

Così, in nome del superamento della fame del mondo (che a ben vedere si sostanzia in una questione esclusivamente distributiva) anche in agricoltura il tasso di produttività è stata innalzata a unico parametro di valutazione pienamente significativo. Uscire completamente da questo tipo di dinamiche si dimostra oggi un processo estremamente laborioso, ma individuare nuovi mezzi produttivi è senza dubbio necessario, magari provando a rimettere al centro del discorso le aziende familiari (dalle quali, ancora, dipende circa l’80% della produzione alimentare su scala mondiale).

In maniera paradigmatica, il libro di Bocchi si chiude proprio su questo tema. Messa fortemente in crisi da una green revolution – che ha oramai ampiamente dimostrati tutti i propri punti di criticità – «l’azienda familiare richiede oggi nuovi mezzi produttivi, che rispondano realmente ai bisogni, rispettando le tradizioni e le culture locali». Questa è oggi la nuova sfida dell’agricoltura e la direzione da seguire per provare a ricostituire quell’equilibrio oramai fortemente incrinato tra essere umano e natura.