The Stanning of American Democracy è il titolo di un recente inserto speciale del «New York Times». A fondo pagina della copertina è riportata la definizione della parola «stan», un neologismo che si riferisce -secondo l’Oxford English Dictionary- a «un fan iperzelante, ossessionato da qualcuno, in particolare una celebrity», e che è ispirato all’omonima canzone di Eminem in cui il fan di sopra si spinge fino ad ammazzare l’oggetto della sua adorazione. Le celebrities a cui si riferisce l’iniziativa del quotidiano newyorkese non hanno nulla a che fare con la musica e tutto con la politica -meglio: con la trasformazione della politica in un fenomeno di pop culture e quindi del modo in cui milioni di cittadini USA la «consumano» e si rapportano ai loro governanti.

«Stiamo assistendo a una grande convergenza tra politica e cultura, valori ed estetica, partecipazione civile e commercializzazione di quel processo. È la democrazia re-immaginata per un universo di fan – oggi il modo dominante in cui si vive la politica», scrive il «Times». E allora Elizabeth Warren -per molti dei suoi supporter – si sovrappone a Hermione Granger, Beto O’Rourke a Harry Potter, Peter Buttigieg a Ron Weasley; i volti di Alexandria Ocasio Cortez, Nancy Pelosi e Ruth Bader Ginsburg si sostituiscono a quelli della Madonna sulle candele votive acquistabili in rete; il cappotto rosso della presidente della camera e il colletto di pizzo dell’amatissima giudice della corte suprema, simboli della #resistenza, che vanno a ruba online, dove intanto sono esauriti i pennarelli -messi in vendita dalla campagna Trump- come quello con cui il presidente avrebbe alterato una mappa metereologica per fare sembrare che l’uragano Dorian stesse abbattendosi sull’Alabama, come lui aveva erroneamente affermato.

Facilitata dalla televisione e resa permanentemente virale dalla rete, la celebritizzazione della politica non è certo una novità, e in questo il «Times» non scopre nulla che non si sapesse da tempo. L’attuale occupante della Casa bianca è il maggior beneficiario immaginabile della politica come entertainment, il suo praticante più abile e il suo risultato più mostruoso.

Il supplemento del quotidiano newyorkese diventa più interessante quando l’accento si sposta sulla metamorfosi della partecipazione civile in un processo di fandom in cui l’acquisto di un gadget, l’invenzione di meme o di un tweet di particolare successo, o il mobbing pro o a favore di un candidato o di una causa diventano i modi dominanti dell’attività politica individuale. Era stato il «New Yorker», in occasione di un lungo articolo pubblicato all’alba primavera araba, a sollevare per primo dei dubbi sulle implicazioni dell’attivismo online. Curiosamente, sul numero del 16 settembre, anche lo stesso settimanale dedica un pezzo alla dominanza dei «fan».

Il suo autore, Michael Schulman, cita -tra gli altri- i casi di Game of Thrones, Star Wars, e il remake al femminile di Ghostbusters -in cui la comunità dei fan si è rivoltata contro i produttori di franchise amatissime. Grazie ai social, il couch potato e il nerd, sono diventati opinionisti, che per accumulo assumono poteri straordinari. Ma, pur parlando di musica, tv o cinema, alla fine anche Schulman arriva alla confluenza evidenziata dal «Times», chiedendosi: «Che la fandom sia diventata tossica come la politica?» . La campagna per le primarie in corso, offre ampia evidenza di quella tossicità. E questo al di là del vetriolico reality personale del presidente. Nemmeno le metafore sportive bastano più a descrivere dibattiti come quello democratico della settimana scorsa – un evento che, tra le domande ad affetto dei moderatori e le reazioni da stadio dei presenti ad ogni intervento del candidato prediletto, sembrava ridotto a un rituale che ripete sé stesso svuotato, di informazione e significati reali. L’istantanea di uno stallo.

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