Quando, in una delle pagine più teoricamente avvincenti de L’uomo è antiquato, Günther Anders descrive l’ambiguità ontologica del mondo a lui contemporaneo ricorrendo alla nozione di «fantasma» e all’onnipresenza dell’immagine come simulazione di una realtà che pare per sempre ritrarsi, sembra offrire al lettore d’oggi non poche chiavi d’accesso per comprendere il presente. E non si tratta semplicemente di una viva possibilità di attualizzazione concettuale, quanto di una lezione sul modo stesso di fare filosofia e critica della cultura: solo apparentemente occasionale e asistematico, ma in realtà volto a restituire, rispecchiandola, l’immagine di una totalità imposta, che solo può mostrarsi falsa nell’inesauribile tentativo di scardinarla attraverso un corpo a corpo teorico.

È QUANTO ANDERS sostiene nelle pagine introduttive al secondo volume del testo summenzionato: «in nessun momento ho cercato d’inventare qualcosa, ma sempre e soltanto di trovare qualcosa», secondo un progetto filosofico che elegge il rapporto tra uomo e tecnica a cartina di tornasole delle condizioni in cui versa l’umanità, che, ieri e oggi intrappolata in nuove e vecchie reti linguistiche, sembra farsi protagonista di quel che Anders, con felice espressione, chiama monologo collettivo.

A testimoniare la vivacità di questa lezione filosofica è un recente volume a cura di Natascia Mattucci e Francesca R. Recchia Luciani, Obsolescenza dell’umano. Günther Anders e il contemporaneo (il melangolo, pp. 188, euro 17), che comprende interventi di Micaela Latini, Maria Pia Paternò, Andrea Rondini, Antonio Tricomi e delle due curatrici. Ne esce un ritratto pluridisciplinare, che ha il merito di restituire il carattere per nulla settoriale della riflessione di Anders, di riflettere sul suo lascito e sull’effettiva attualità delle sue tesi. In questo senso, i saggi cercano di mettere in relazione la filosofia della tecnica e dell’umano con altre proposte filosofiche e, nello specifico, estetiche (Latini), con la postura apocalittica che emerge dalle pagine dedicate alla «patologia» della libertà (Mattucci), con l’etica contemporanea, a partire dall’impegno sulla questione atomica (Recchia Luciani), con la psicoanalisi e con il concetto di mancanza (Paternò), con la sostanza mediale e mediatica della società di massa (Rondini), con il pensiero apocalittico di altri intellettuali umanisti coevi (Tricomi).

NEL SAGGIO di quest’ultimo emerge sia l’assoluta necessità di tornare alla lettura di Anders, sia il bisogno di rivederne criticamente le posizioni: «Se egli ritiene l’ordine dato non il peculiare effetto di un precipuo sistema economico, produttivo, ideologico – in pratica: del capitalismo –, ma l’esito fenomenologicamente ovvio di un’inarrestabile modificazione ontologica del rapporto tra uomo, tecnica e mondo, è inevitabile che ogni forma di opposizione debba appunto muoversi su un registro esclusivamente moralistico, senza mai potersi conquistare una dimensione e una progettualità, senza mai poter definire una retorica e un sbocco intrinsecamente politici». Cosicché il problema del rapporto tra teoria e prassi assume caratteri di insolubilità, anche e soprattutto quando il richiamo all’impegno si ponga come estrema soluzione pragmatica – che Anders individua nei gesti di disobbedienza civile –, come articolazione spuria di una teoria oppositiva ormai incapace di fungere da retroterra concettuale e orientativo.

IL SOLLEVARSI di questa contraddizione è però anche il segno di ciò che l’opera del filosofo problematicamente rappresenta: «non – per dirla ancora con Tricomi – un breviario teorico realmente traducibile in organiche azioni politiche», ma qualcosa che «dà conto delle angosce e dell’immaginario prodotti in Occidente, nell’era postbellica e fino alla caduta del muro di Berlino», restituendo sia l’immagine reale di un mondo profondamente nichilista, sia le inevase possibilità di ribaltamento e fuoriuscita.