Drones esplora il viaggio di un essere umano: dall’abbandono alla perdita della speranza fino all’indottrinamento del sistema che lo rende un drone umano. Questo disco è una riflessione sulla società, sui governi, su certe organizzazioni che non fanno altro che attuare questo processo di lavaggio del cervello, che sembra colpire tutti, e far credere determinate cose alle persone in modo da approfittarsene in un secondo momento” Comincia così Matthew Bellamy, chitarrista e frontman dei Muse, il racconto della genesi del settimo album, in uscita il 9 giugno, della band inglese,transitata brevemente il mese scorso a Milano prima di tornare nuovamente in Italia il prossimo 18 luglio per il festival Rock in Roma all’Ippodromo delle Capannelle.

Tra suggestioni sinfoniche, certi riff ricordano il “wagneriano” Meat Loaf, e lunghissime suite-canzoni divise in due o più parti, come l’eredità dei Queen impone, Drones è attraversato da forze oscure, a partire dalla distopica e inquietante copertina, e intervallato da registrazioni d’epoca di discorsi di John Kennedy per poi concludersi in una preghiera gospel di auspicabile rinascita.

 

Matthew Bellamy chiarisce subito il perché di questa ossessione, nata un paio di anni fa dopo aver letto il libro Predators: The CIA’s Drone War on al Qaeda, tagliente saggio sulla politica estera di Obama “La lettura di quel libro mi ha profondamente scioccato, non immaginavo l’uso massivo di questi marchingegni ma nei testi dell’album non faccio riferimenti espliciti a quel testo ma ho scelto di elaborare il mio concetto di drone, uno psicopatico metaforico che permette comportamenti folli senza possibilità di appello. Il mondo è dominato da droni che utilizzano droni per trasformarci tutti in droni”. Tornando alla musica, il bassista Christopher Wolstenholme racconta “Credo che questo album in qualche modo ci riconnetta alle vibrazioni dei nostri esordi. Drones è un disco “suonato”, molto più rock degli ultimi, più legato a quel nucleo di tre musicisti che ci caratterizzava fin dal primo disco. C’è un forte concetto espresso attraverso i testi e forse per questo avevamo bisogno di una compattezza produttiva; avere Robert “Mutt” Lange come produttore ci ha aiutato a essere più concentrati sui nostri strumenti, senza di lui forse avremmo corso il rischio di andare ognuno per conto suo anche se non è necessariamente un male visto che The 2nd law è stato registrato così”.

Il ritorno alle origini della potenza del power-trio è sottolineata anche dal brano Psycho, un riff familiare a chi ha assistito in questi anni ai concerti della band “Erano anni che suonavamo quel riff di chitarra, il pubblico lo amava e così ci è sembrato logico costruirci una canzone intorno. Solo in un secondo momento ci siamo resi conto che aveva almeno 16 anni” ricorda il batterista Dominic Howard.

L’idea di un concept album implica una lunga riflessione aprioristica ma Matthew Bellamy smentisce “Sapevamo unicamente che sarebbe stato un disco rock, un album immediatamente identificabile con noi. I nostri dischi precedenti erano impregnati di concetti impegnati ma in Drones il concept è molto più forte ed espanso e ogni canzone ha il suo ruolo preciso e cronologico all’interno dell’album” Nel viaggio al termine dell’umano che Bellamy ha descritto all’inizio, è possibile rintracciare anche tematiche religiose e auspici di liberazione e la mente non può evitare di tornare a un disco come Tommy dei The Who, forse la rock-opera per eccellenza. Bellamy conferma la suggestione, aggiungendo The Wall dei Pink Floyd, anche se rivendica la modernità del modulo “Non abbiamo mai discusso in maniera specifica se fare o meno una rock-opera anche perché è un modo di concepire album che è comunque legato agli anni ’70 e ’80. Il nostro concept è contemporaneo e ci siamo più che altro concentrati sulle molte possibilità per il tour, pensando a soluzioni visive ma anche all’utilizzo di veri e propri droni sul palco”.