In occasione della prima di Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, al Teatro alla Scala di Milano è andato in scena uno spettacolo deprecabile come non accadeva da tempo, che non si è svolto sulle assi del palcoscenico, ma tra le sedie del loggione. L’espressione libera del consenso e del dissenso deve essere sempre garantita, ma è norma di libertà ugualmente importante che chi dissente non impedisca a chi assente di godersi lo spettacolo. Perché ogni singolo spettatore ha diritto al suo spettacolo, con buona pace dei protervi loggionisti. Questo sul piano della civiltà.
Sul piano del giudizio o del pregiudizio (faremo un distinguo fra un istante), invece, è tutt’altra cosa. Qualcuno dovrà pur dirlo: è ignominioso che un teatro prestigioso come la Scala sia preso in ostaggio da un manipolo di vecchi melomani, appassionati certo, competenti di voci forse, di musica molto poco e di regia per niente. E disperatamente retrogradi. Fosse solo questo, la diagnosi sarebbe solo di cieca inciviltà e incapacità di giudizio.

Invece duole denunciare che in quell’inciviltà c’è del dolo: i suddetti erano pregiudizialmente pronti a protestare, con tanto di biglietti tricolori con su stampate perle di saggezza come «Questo è un sacrilegio», «Smettete questa pagliacciata, è ora di finirla!». Insieme a Verdi, che i sensitivi loggionisti immaginavano nell’atto di rivoltarsi della tomba, si sarà rivoltato anche il povero Visconti al vedere trivializzata la famosissima sequenza di Senso. Ma veniamo allo spettacolo.

L’idea del regista Damiano Michieletto, che vuole «rendere vivida ed emozionante la storia, dare forza teatrale ai personaggi, accendere l’immaginazione degli spettatori, aprirsi a un linguaggio metaforico», è quella di trasporre la vicenda dall’America puritana del XVII secolo a quella esibizionista e voyeurista contemporanea: Riccardo è un politico alla vigilia di una campagna elettorale; Renato è suo amico e bodyguard; Ulrica è una santona che fa cadere in trance e guarisce fedeli storpi e ciechi; l’orrido campo è un viale di periferia «battuto» da puttane rissose, una delle quali aggredisce la povera Amelia; nel ballo in maschera finale, su cui campeggia un’insegna al neon con il motto della campagna elettorale («Riccardo, incorrotta gloria»), i partecipanti si nascondono dietro le molte effigi in cartone a grandezza naturale di Riccardo.

Da tempo non si vedeva una regia «inventiva» che risolve uno ad uno tutti i nodi drammaturgici del libretto, con una coerenza invidiabile. L’idea, pure spinta e a tratti volutamente baraccona, può non piacere, ma la macchina funziona. Con buona pace dei loggionisti. La direzione del giovane Daniele Rustioni è stata corretta ma sbiadita. Quanto alle voci, ci si accontenta delle esecuzioni più meno corrette ma dimenticabili di Marcelo Alvarez (con i suoi acuti sbiaditi), Patrizia Ciofi (inascoltabile), Zeljko Lucic e Marianne Cornetti (entrambi con acuti potenti ma gravi opachi e fuori fuoco), finché non entra in scena Sondra Radvanovsky con il suo timbro brunito, il suo volume degno di un teatro, la sua estensione impeccabile, a ricordarci cosa dovrebbe sempre essere una voce lirica.