Il tabù del sesso è uno degli aspetti più noti dell’Inghilterra vittoriana, in cui la repressione degli impulsi e dei desideri era all’ordine del giorno. Forse è per questo che Mitchell Lichtenstein – figlio del famosissimo pittore pop Roy – è stato attratto dall’adattamento di Angelica, romanzo di Arthur Phillips in cui ci si confronta proprio con i fantasmi di questa repressione. Già nel suo primo film, la commedia nera Denti, Lichtenstein aveva infatti dimostrato di saper dare forma a mondi in cui la sessualità può trasformarsi in un incubo.

«C’è senz’altro un tema in comune con Denti – conferma il regista – che è quello della repressione sessuale femminile. Ma ciò che mi ha più attirato del romanzo di Phillips è proprio il modo in cui affronta l’ambientazione vittoriana: di solito una vicenda che ha luogo in quell’epoca lascia il tema sessuale come sotto-testo. Qui invece è lampante: è il suo modo di disattendere le aspettative che mi ha fatto decidere di portarlo sullo schermo». La protagonista del film, Constance (Jena Malone) è sposata ad un marito amorevole, Joseph (Ed Stoppard), con cui concepisce una figlia, l’Angelica del titolo. Constance però diviene progressivamente ossessionata dall’idea che il peccato del sesso abbia attirato una sventura sulla sua casa, che si materializzerà in un vero e proprio fantasma, mentre Joseph sparisce senza lasciare traccia. «Se dovessi etichettare il film – scherza infatti Lichtenstein – lo definirei una storia di fantasmi psico-sessuale. O si potrebbe chiamare semplicemente un thriller psicologico, perché il fantasma non è il vero cuore del film, è più un’espressione dello stato psichico di Constance».

Una metafora, insomma, proprio dei tabù e delle loro controindicazioni, a volte molto efficace, spesso divertente ma con qualche momento di cedimento, specialmente quando si usa la CGI per dare forma ai mostri di Constance. Il libro da cui è tratto cerca di svelare il mistero che avvolge la scomparsa del marito della protagonista da quattro diversi punti di vista, con le parole dello stesso Lichtenstein ha una struttura «alla Rashomon». «Per questo – continua il regista – non viene svelato il mistero di ciò che è successo a Joseph. Per me però il capitolo dedicato alla prospettiva di Constance è il più convincente, e pensavo che la sua storia fosse sufficiente».

Al sovrapporsi dei punti di vista che lasciano intatta la domanda iniziale, nel film si preferisce quindi osservare il disagio di una donna assumere una forma quasi palpabile, scivolando in una dimensione quasi horror che gioca con la coeva nascita dell’illusionismo «su pellicola». Tutta la bella sequenza dei titoli di testa mostra alcune foto dell’epoca manomesse per far apparire dei fantasmi alle spalle dei soggetti. Un raffinato tocco del regista per portare il pubblico a chiedersi se siano più veri i fantasmi che possiamo vedere con i nostri occhi di quelli che sono frutto della nostra psiche.