Earl Stone è un orticoltore che l’economia digitale ha estromesso dal mercato e così, dopo una vita consacrata al lavoro, si ritrova sul lastrico. Non gli resta che un pick up pieno di carabattole. Ma è proprio questo che attira l’attenzione di un giovane colombiano, il quale gli propone un affare: si tratta di trasportare dei pacchi da una parte all’altra del paese. Un colpo di fortuna? Oppure una follia? Earl, al quale la famiglia rimprovera di essere stato sempre assente e non perdona di essere infine diventato povero, non può che accettare. Comincia qui la sua avventura e una nuova storia che Eastwood prende in prestito alla cronaca – quella del pensionato ottantasettenne Leo Sharp che per conto di un cartello del narcotraffico trasportava quintali di cocaina, prima di essere arrestato dalla polizia federale – ma che sembra inventata proprio per il cineasta/attore americano.

CHI ANDRÀ a vedere Il corriere- The Mule (da domani nelle sale) incontrerà un Eastwood in parte familiare. L’orticoltore Earl Stone ha molto in comune con l’operaio Walt di Gran Torino. Il film comincia proprio all’inizio del 2008, dove avevamo lasciato Walt. Come l’operaio, anche l’orticoltore ha fatto la guerra di Corea e non ama i tempi moderni. « Internet? – dice ad una fiera dove uno dei suoi colleghi presenta il primo negozio di orchidee on line – è un’invenzione senza avvenire ». Invece è il suo mondo all’antica a non averne. Più che mai, Eastwood sembra giustificare le idee degli elettori di Donald Trump: l’America un tempo grande, ora non lo è più. E sembra soprattutto fare eco alla nostalgia dei maschi bianchi per una società in cui il loro dominio si fondava sull’esclusione fisica e morale delle minoranze e delle donne. Questo sentimento d’appartenenza ad una razza e ad un genere è cosi solidamente diffuso da tenere insieme i maschi bianchi oltre le differenze di classe e di cultura. Ed è infatti proprio la differenza tra Walt e Earl a far esaltare la solidarietà di razza tra i due personaggi. Walt era un operaio fordista, statico, ripetitivo, scorbutico. Earl è un piccolo imprenditore, che per lavoro ha traversato il paese in lungo e in largo, vivendo il sogno americano lontano dalla famiglia e dalla casa, a bordo dei pick up (idealmente costruiti da Walt).

MA NON SONO questi tratti generali a dare corpo al film. Piuttosto è la fisicità dei personaggi a tratteggiarne il tipo umano. Earl non è solo un orticoltore. In un certo senso è un fiore. È solare. È un seduttore. È delicato. Certo è aggrinzito, ma conserva la bellezza e l’eleganza d’un petalo appassito. C’è in Eastwood questo materialismo brutale e immediato che fa pensare a certi riferimenti alla tassa sul vino che Benjamin credeva di trovare nella poesia di Baudelaire. È una filosofia in cui l’idea della cosa rappresentata è l’espressione diretta della vita oggettiva della cosa stessa. Ed è proprio questo riferimento alla materialità che rende Eastwood un grandissimo cineasta. Su cosa viaggia il suo film? Sul ritmo che imprime il movimento del pick up di Earl. Così come in Gran Torino era fondamentale che la macchina da corsa fosse al contrario costantemente parcheggiata. Qui è essenziale che la macchina da presa si adatti all’andamento lento ma determinato del mastodonte nero che Earl acquista con gli introiti del suo primo viaggio. Earl va dunque per la sua strada. Si ferma dove vuole. Ora in motel ora in un piccolo ristorante, per un tacos o per una scappatella con due giovani escort. Le sue bizzarrie fanno impazzire i narcotrafficanti che lo seguono. E fanno perdere il sonno agli uomini dell’Fbi che a loro volta sono alla ricerca del misterioso mulo della droga.

TUTTO QUESTO mondo variopinto, di latino-americani, filippini, wasp, ladri e guardie, e che in fondo non è altro che una metafora del paese, si mette al passo del vecchietto, il quale obbliga tutti ad adeguarsi ai propri gusti musicali, alle proprie battute più o meno razziste, ai propri valori desueti, alla propria esperienza fallimentare di vita. Tutti lo seguono e in primo luogo il film. Il quale, come tanti altri film politici di Eastwood, non dice nulla. Eppure poche opere sono in grado di mostrare con la sua forza e essenzialità quest’America piegata alle stravaganze d’una generazione che, ostinatamente, rifiuta di accettare la fine degli anni cinquanta. Earl si ostina a girare il paese come se fosse ancora il suo. Lo è da lontano, mentre il paesaggio sfila via dal finestrino. Ma appena la macchina si ferma l’incanto scompare, e la realtà è ben diversa: come nella scena in cui Earl soccorre una coppia di afroamericani chiamandoli con paternalismo coloniale «my coloured friends» (amici di colore). È una lezione che Eastwood fa ad Earl, ma che vale per tutti quelli che pensano di adattare il mondo ai propri desideri. Eastwood insiste invece con la testardaggine del mulo a mostrare la supremazia del destino sull’individuo, destino di fronte al quale l’uomo è solo libero di posizionarsi, senza mai poterne incidere il corso.

«QUANTO si può essere fortunati?» canta Dean Martin dall’autoradio di Earl. «L’ho baciata e mi ha baciato, come ha detto quel tale una volta: non è forse come un colpo alla testa?» The Mule sembra fare di Ain’t That a Kick in The Head, che Earl ascolta in macchina, una sorta di programma. È un film delicato e ironico come solo poteva esserlo Dean Martin. È un colpo di testa, di un vecchio cineasta che, come è stato notato, ha deciso di godersi un gioioso giro di giostra, o una sorta di Bucket List (lista delle cose da fare prima di rendere l’anima): una festa messicana, un viaggio in macchina, una scena di sesso… Ma è anche, letteralmente, una botta in testa.