Ultimi giorni col cielo che sfuma dal blu al grigio ghiaccio, il mercato ha chiuso, i prossimi festival – come il CPH:DOX (15-25 marzo) di Copenaghen – hanno rivelato il programma, si chiacchiera di chi sarà il nuovo curatore della Quinzaine di Cannes, mentre intorno al Palast, tra critici e cinefili è iniziato il gioco del toto orso. I «si dice» danno nel cuore della giuria, guidata dal regista tedesco Tom Tykwer, il film di German jr. Dovlatov, ispirato alla figura del poeta russo e Transit di Christian Petzold, anche questo con un origine letteraria, il libro di Anna Seghers, riletto liberamente da quello che si conferma nonostante tutto uno dei registi oggi tra i migliori.

Come sempre la Berlinale, almeno per quanto riguarda il concorso (e quest’anno anche la selezione di Panorama) ha mostrato una scelta basata soprattutto sul «topic», il soggetto, legato all’attualità, cosa che spesso va contro la fiducia al cinema con la convinzione che un tema importante, per esempio quello dei migranti, basti da solo a garantire la riuscita del film. Altrimenti non si spiega la presenza in gara di un titolo come Eldorado del regista svizzero Markus Imhoof, la vita sulle navi che soccorrono i profughi in mare, gli sbarchi e un’alternanza ai ricordi personali di esuli durante la seconda guerra mondiale.

E questo, con tutte le buone intenzioni per carità, è diventato una sorta di codice dell’immaginario: come rappresentare l’Africa o il resto del mondo devastato da guerre e quant’altro senza alcuna assunzione di responsabilità se non quella nel rapporto vittime e soccorritori. Eppure grandi registi africani come Idrissa Ouedraogo appena mancato ci hanno mostrato una immagine (immaginario) indipendente dell’’Africa conquistando una una narrazione alla «prima persona» non mediata dai colonizzatori – lo stesso accade nei film di Lav Diaz sulla storia e la realtà delle Filippine, il suo Paese, del suo nuovo film, qui in gara, The Season of Devil, ascesa e dittatura di Marcos, ne parleremo.

Ecco perché ha un suo posto nella corsa all’Orso il film della giovane regista rumena (già molto coccolata da programmer internazionali e critici) Adina Pintilie, che cerca una narrazione del contemporaneo nel dispositivo filmico.Touch Me Not nasce nelle parole della sua autrice dal desiderio di esplorare il proprio rapporto con la realtà: «Sono convinta che non ci sia un confine tra realtà e finzione, c’è solo il cinema che esprime l’esperienza soggettiva del reale» scrive nelle note sul materiale stampa.

Il terreno su cui questa relazione possibile viene provocata è qui il corpo. Bloccato nonostante la sua apparente libertà, fluido anche quando sembra condannato alla paralisi, con un cast composto da attori professionisti (Laura Benson, Tomas Lemarquis, Irmena Chichikova) e non (la coppia Grit Uhlemann e Christian Bayerlein, lui disabile malato di Sma, Hanna Hoffman, una transessuale, Seani Love, escort specializzato in sadomaso e neotantra), in un processo di «reenactement» nel corso del quale ciascuno si confronta con sé stesso, i propri desideri e fantasmi, e al tempo stesso si presenta come un personaggio. Tra loro c’è anche la regista, la cui presenza come quella della macchina da presa è costantemente sottolineata, a rivelare appunto il processo di una messinscena che si fa principio di realtà.

Il risultato è un film talvolta anche irritante, che pone lo spettatore in una situazione poco confortevole entrando nell’intimità dei personaggi che permettono a loro volta un libero accesso in quelle zone oscure, irrisolte, spiazzanti. Laura non sopporta di essere toccata, fa venire a casa un ragazzo per guardarlo mentre si masturba. Ogni contatto la infastidisce, Hannah prova a liberarla, è l’unica con cui si sente un po’ a suo agio. Christian nonostante il corpo deformato dalla malattia si piace: è contento della sua sessualità e del suo sesso, del rapporto con la moglie. Tomas ha perduto i capelli e non riesce a accettare facilmente il suo nuovo aspetto, tra lui e Irmena accade qualcosa che non riesce a avere un seguito. Il guru ci conduce nel locale sadomaso, con le corde i corpi si legano, cercano i propri limiti…I piani si sovrappongono, la voce della regista ci dice di un suo incubo, sognare la madre accanto a lei mentre fa sesso, la sua figura quasi si sovrappone a quella di Laura in uno scambio di ruoli, madre e figlia.

È l’evidenza della messinscena che azzera anche il rischio del voyeurismo – se presente anch’esso parte del processo così come una sorta di osservazione quasi da entomologa che la regista supera con la sua presenza e il suo essere come gli altri «personaggio». E dal privato il movimento di quei corpi ci porta in un conflitto collettivo, nel malessere che ciascuno può riconoscere, quel disagio di spettatori di fronte a un universo che sfugge a rassicuranti punti di riconoscimento e che si fa dichiarazione di cinema.