Anno 1788. “Prima del mezzo giorno dei 14 ottobre lasciai le Eolie, in una feluca da Lipari mi avviai a Messina”. Non c’è un filo di vento. Fermi qualche ora a Milazzo e poi diretti, costeggiando (han “dovuto remigar sempre i marinai”), alla bocca dello Stretto. Si giunge in vista di Scilla “altissimo scoglio che cade a piombo sul lido della Calabria” e che “mi mostravano col dito steso”. Finalmente a Messina. Ai passeggeri della lenta feluca, prima lontane poi sempre più vicine e nette, appaiono le rovine causate dai terremoti del febbraio 1783.

Sono trascorsi quasi sei anni: “la curvità del porto prima era adorna pel tratto di più di un miglio d’una fuga continuata di superbi palagi a tre piani, chiamata volgarmente la ‘Palazzata’, abitata da mercatanti e da altre civili persone, e che formava una specie di anfiteatro del più dilettoso e del più magnifico aspetto”. Le devastazioni provocate dal sisma sono più ingenti e pressoché totali lungo il mare: “la sua propagazione fu osservata sensibilmente, mercé il successivo atterramento delle fabbriche, dalla punta del Faro fin dentro a Messina; quasi da quella punta preso avesse fuoco una mina continuata lungo la spiaggia, ed estesasi nell’interiore della città. Il suolo attorno alla spiaggia si aprì in fenditure alla medesima parallele, e queste furono altresì osservate in tutte le colline sopra Messina”.

Sono parole di Lazzaro Spallanzani, il celebre biologo e naturalista, che leggiamo nel secondo tomo dei suoi “Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino”, pubblicati tra il 1792 e il 1797. Sbarca Spallanzani che ancora resta d’emergenza, all’attracco, l’organizzazione delle banchine. Infatti “il molo, che accompagnava il porto e che oltre a un miglio si estendeva in lunghezza, e che quanto era ameno per la vista altrettanto riesciva delizioso pei passeggi, sprofondossi entro il mare in maniera che di lui non lasciò un vestigio solo onde potersi dire, mostrandolo: ‘qui fu’”. Un anno prima di Spallanzani, il 10 maggio del 1787, Goethe giunge a Messina e scrive come gli si sia “offerto fin dai primi passi lo spettacolo più orrendo d’una città distrutta… attraverso rovine e rovine… la vista d’un deserto frastagliato di macerie… il silenzio, nella notte, era terribile”.

Si conservano molte immagini della Palazzata prima del terremoto. Tra le altre una incisione di Cooper la mostra quale si scorgeva dal mare, lo specchio falcato del porto fitto di barchi e lance. Tra i velieri, i due alberi e le vele latine ammainate d’una feluca. Ora Goethe ci dice: “nulla di più tetro che lo spettacolo della così detta ‘Palazzata’, una serie di grandi palazzi a falce di luna… adesso si presenta allo sguardo orribilmente frastagliata e bucherellata, poiché l’azzurro del cielo si vede attraverso quasi tutte le finestre”. Una veduta attraente del porto, conservata a Napoli al Museo San Martino, dobbiamo a Jacob Philipp Hackhert, amico di Goethe. Il pittore ci mostra il fervere dei traffici: marinai, facchini e commercianti, i velieri alla fonda sotto il chiaro cielo dello Stretto.

Laggiù la costa della Calabria. Con Christoph Heinrich Kniep, Goethe lascia Messina lunedì, 14 maggio: “la Calabria si vedeva dalla parte opposta”. A bordo i due amici discorrono della pittura di paesaggio, ma Kniep non è ispirato a tracciare un disegno di quei luoghi mirabili: “non offrivano abbastanza seduzioni”. Presto Goethe cade preda del mal di mare che lo induce a una mesta considerazione: “tutto sommato, non avevamo veduto nient’altro che i vani sforzi degli uomini per resistere contro le violenze della natura”.