Uno dice, «Vado in merceria a comprare due automatici» e oltre a quelli porta a casa un ricco cahier de doléance della merciaia per come le e i clienti strapazzano la nostra lingua. Che poi, a ben vedere, dietro al parlare approssimativo mica c’è solo l’ignoranza incolpevole, bensì anche un certo disinteresse verso il mondo. Ma procediamo dall’inizio. Siccome ogni tanto mi piace pastrugnare con aghi e fili, con esiti miserandi ahimé, pochi giorni fa entro nella merceria di quartiere, a cui bisognerebbe costruire un monumento per come sta resistendo a chi vorrebbe aprire al posto suo l’ennesima pizzeria da gentrificazione, per cercare dei bottoni. La merciaia si dà da fare e quando addocchio dei bottoni di cuoio lei fa «Nooo, quelli non vanno bene, sono da cappotto di Lodi ». La guardo interdetta e lei racconta.
«Sa, a volte sono davvero in difficoltà perché c’è gente che mi chiede cose che non capisco. Siccome non voglio sembrare scortese, faccio una serie di domande per arrivare all’illuminazione che, quando arriva, mi fa venire così voglia di ridere che devo correre a nascondermi nel retrobottega».

NEL LUNGO ELENCO che la merciaia ha accuratamente trascritto su un foglietto rosa a quadretti , subito dopo “Il cappotto di Lodi”, che dovrebbe stare per loden, ci sono le seguenti perle. Il “bodo” che, nelle intenzioni della richiedente, doveva essere il singolare di body perché, è ovvio, in tutte le lingue esistono il singolare e il plurale e a lei di bodo ne serviva solo uno, mica due o tre. Se è stato relativamente facile interpretare “La polo fleppata” anziché felpata, trovare un copricostume per passeggiare sul “Bagnasciutto”, o una calza morbida e spessa per proteggere l’”Allìci vago”, per la nostra eroina è risultato ben più ostico diradare le nebbie sul “Pig di pilo”, che non è una nuova razza di suino ma un semplice pigiama, mentre sono rimaste senza risposta le attribuzioni di “Gagia”, ”Anedòtto” , “Furfé” e “Manipatte”. Ostacoli seri ci sono stati sulla ricerca del filo color “Verdignòlo” perché non solo la signora non aveva un campione della stoffa alla quale doveva intonarsi quella sfumatura sconosciuta in qualunque cartella colori, ma non ha voluto nemmeno guardare i venti tipi di filo verde che la merciaia le proponeva. Qui non siamo solo approssimativi, ma pure testoni. Poiché la nostra merciaia è una di quelle signore che facilitano la conversazione, è un attimo passare dalla passamaneria al racconto personale e lì è tutto un fiorire di confidenze sui timori per il destino dell’”Amazzoide”, che poi sarebbe la foresta amazzonica, la lite con la vicina di casa per uno stramaledetto “Qui, quo, qua” che in altre latitudini è più conosciuto come qui pro quo, i grattacapi per la ristrutturazione de “L’abbaina”, ma qui è facile dài, il racconto su come un raffreddore è sparito “Perché faccio gli sfumiggi”, le preoccupazioni alimentari in quanto “Sono lergica”, il sapersi fermare, prima di una lite, “Sulla sogliola”.

MA LE IMPRESE più difficili sono state affrontare le richieste di un cliente che, per fare un regalo natalizio, entrò e a gran voce chiedendo “Un pigiama da gay” e lì la merciaia proprio non ha saputo soddisfarlo, e poi quella della signora che voleva “Una sottoveste da mettere sotto il caprone” che poi si rivelò essere, dopo venti minuti di indagine, la vestaglia. Lettori del manifesto, illuminate me e la merciaia. In quale parte o dialetto del nostro bel Paese la vestaglia è chiamata caprone? A chi saprà aiutarci regaleremo una confezione di bottoni da camicia in “Mammaperla”, che quelli servono sempre.

mariangela.mianiti@gmail.com