Otto anni passati a intervistare, documentare, riflettere sulla «fluorescenza» di un modello di capitalismo qualificato come della sorveglianza.

Shoshana Zuboff non si sottrae alla fatica del lavoro di ricerca. Insegna alla Harvard Business School dal 1981 e ha seguito con tenacia e costanza il diffondersi della Rete sia come medium che come atelier produttivo e economico. Ha indagato le trasformazioni del lavoro prima, poi gli effetti dell’intelligenza artificiale nella vita contemporanea per poi concentrarsi appunto sul Capitalismo della sorveglianza, come recita il titolo del libro pubblicato dalla Luiss University Press (traduzione di Paolo Bassotti, pp. 622, euro 25; in libreria dal 10 ottobre). Ha iniziato a farlo nel pieno della dinamica tassonomica per definire il capitalismo contemporaneo: informazionale, delle piattaforme, sharing economy.

Per questa economista di origine tedesca, l’aspetto che si imponeva di più era quello della sorveglianza, dell’acquisizione dei dati e della loro rielaborazione. L’orizzonte dove porre lo sguardo erano cioè i mastodontici data center delle imprese – migliaia e migliaia di computer interconnessi per memorizzare ciò che facciamo quando si è log in su Internet – e sugli algoritmi e software messi in campo utilizzando l’intelligenza artificiale. È in questo contesto che la vita diventa materia prima e merce.

Shoshana Zuboff

Shoshana Zuboff non si fa però illusioni. Sette anni di lavoro possono essere nulla rispetto a quanto potrà accadere nel prossimo futuro. Il mondo è in fermento. Tutto sembra essere di nuovo in movimento. La crisi è sempre lì che morde il freno, costringendo, come sempre accade nel capitalismo, a cambiare forme del produrre, del vendere e dell’esercitare potere.

«C’è la possibilità che da qui a una manciata di anni questa forma di capitalismo possa finire. E con il suo tramonto potremmo veder mutare le forme del potere statale e delle imprese».

Nel libro, l’economista di Harvard scrive poco di lavoro e di disuguaglianze sociali. Dà per scontate molte cose acquisite nel pensiero economico sia mainstream che eterodosso, a partire dal fatto che tracciare confini netti, ad esempio, tra sviluppo e crescita non sia così automatico.

Sostiene che il capitalismo della sorveglianza è di tipo estrattivo, collegandosi dunque idealmente alle riflessioni latinoamericane, europee e statunitensi attorno a questo tema. Tra le pagine emerge inoltre la convinzione che se è la vita a produrre ricchezza, una qualche declinazione diversa di lavoro da quella dei classici – Karl Marx compreso – serve, ripensando così le distinzioni tra lavoro produttivo e improduttivo, tra quello di cura e della riproduzione.

Quali le dinamiche sociali, culturali, economiche che hanno portato alla «fioritura» del capitalismo della sorveglianza?

Tutto nasce con la crisi delle imprese dot-com. Eravamo tra la fine di un secolo e l’inizio di un nuovo millennio. La Rete era diventata un settore economico emergente. C’era un’impresa giovane, innovativa. Si chiamava Google e aveva sviluppato un motore di ricerca ritenuto migliore di altri in circolazione. Il suo sito era visitato da milioni di persone; accumulava molti dati, ma non aveva un preciso business model.

Era stata fondata da due giovani ambiziosi ricercatori della Stanford University che non sapevano però quale strada prendere. Larry Page e Sergej Brin erano consapevoli che la logica dominante in Rete era ormai quella della gratuità. Si davano gratis servizi e software in cambio dei dati della navigazione degli utenti. Dati grezzi, sporchi, poco elaborati, che servivano a ben poco se non lavorati.

I due giovani però non sapevano bene come usarli per fare profitti, anche se una qualche ipotesi dovevano pur esporla agli importanti venture capitalist che avevano investito in Google.

Con la crisi delle Dot-com Larry Page e Sergej Brin correvano infatti il rischio di diventare due tra i tanti giovani sciocchi della Rete. Geniali, forse, innovativi, sicuramente, ma dei falliti se non riuscivano a trovare il loro business. Avevano escluso di vendere dati alle imprese di advertising, ma con la crisi dovevano trovare una soluzione.

Quello che fecero aveva dalla sua la semplicità. Elaborarono i dati grezzi, sporchi, che avevano accumulato sui comportamenti degli utenti e che avrebbero venduto come prodotto finito ai singoli inserzionisti pubblicitari.

Possiamo dire che il capitalismo della sorveglianza può avere questa narrazione più o meno epica. Quel che però nessuno poteva immaginare era che i dati personali fossero ormai la materia prima strategica da elaborare attraverso la sua immissione nei circoli virtuosi computazionali, dove progressivamente sarebbero stati usati potenti software, intelligenza artificiale, machine learning e un sofisticato dispositivo produttivo e di ricerca teso a prevedere i comportamenti futuri degli utenti. La predittività significa infatti non solo prevedere, ma anticipare e plasmare i comportamenti.

Il capitalismo della sorveglianza sta racchiuso in questa parola: predittività, cioè prevedere e al tempo stesso manipolare, condizionare, plasmare le scelte che saranno fatte quando ci si collega a un sito internet o quando si clicca per acquistare una merce.

Le piattaforme digitali diventano quindi delle fabbriche computazionali dove agisce un flusso ininterrotto di dati acquisiti dalle imprese attraverso il controllo di quanto accade in Rete, alimentando le «catene della domanda», le «supply chain» del capitalismo. 

Nel libro scrivo sul surplus comportamentale, cioè di quel fattore che ha a che fare con la predittività. È uno degli arcani svelati dal capitalismo della sorveglianza, cioè la trasformazione dell’esperienza umana in materia prima economica.

L’altro aspetto che emerge è che questa forma di capitalismo ha caratteristiche estrattive, cioè è organizzato per catturare dalla natura e da quanto fanno uomini e donne materiali da acquisire per poi elaborarli e venderli.

Google, Amazon Facebook, Twitter sono infatti imprese organizzate per rispondere ai propri imperativi estrattivi.

Il capitalismo è il mondo della «crescita senza lavoro». Il modello di business della Rete, ridurre la vita a merce, trasforma però la natura umana in un atelier della produzione senza confini. Lavoro scarso ma vita che diventa produzione. Una contraddizione, non le sembra?

Il capitalismo della sorveglianza è agli esordi, ma in veloce divenire. Prima c’è stato lo studio dei comportamenti degli utenti, poi sono stati elaborati algoritmi per definire ciò che potrebbero e dovrebbero fare nel futuro.

Adesso la posta in gioco è estendere la sorveglianza, mettendo in campo una infrastruttura che acquisisca dati ovunque, dalle strade al tempo passato di fronte le vetrine dei negozi, analizzando ogni aspetto del movimento dei corpi e delle manifestazioni di desideri e bisogni.

In questo caso emerge una sorta di «potere strumentale» adeguato ai diversi contesti nazionali, regionali, esistenziali, tecnologici. Su questo crinale il capitalismo della sorveglianza manifesta una sua attitudine manipolatrice, antidemocratica.

Non è un caso che il diritto alla privacy abbia acquisito una così grande rilevanza. Ci sono state mobilitazioni per affermare il diritto all’oblio – la vostra Unione europea lo riconosce – alla riservatezza come bene comune, per impedire alle imprese di raccogliere dati che possono essere usati per manipolare la discussione pubblica e le elezioni, come è emerso con l’affaire di Cambridge Analityica e la quasi certezza che le elezioni politiche presidenziali negli Usa e il referendum inglese sulla Brexit siano stati condizionati da imprese dei Big data con il silenzio complice dei social network e di altri colossi della Rete.

La privacy è ormai ritenuta l’ultima trincea contro la radicale trasformazione della vita in materia prima, in merce….

La privacy era inizialmente un diritto individuale, ma su base universale. Poteva essere ignorata dagli Stati solo in situazioni estreme. La proclamazione dello stato di emergenza coincideva, quando accadeva, con una sospensione temporanea dello stato di diritto.

La Rete ha permesso di bypassare leggi, norme. Quello che i movimenti dei diritti civili e sociali vogliono affermare è, da un lato, la possibilità di un freno all’uso delle pervasive tecnologie della sorveglianza e, dall’altro, il ripristino della possibilità da parte dei singoli e delle società di autodeterminare sia la proprietà che la gestione dei propri Big Data.

Siamo in una fase di passaggio, ma non c’è da escludere la possibilità che il capitalismo della sorveglianza soffochi nelle sue stesse contraddizioni. Questo non significa che crollerà, ma che come forma specifica di modello estrattivo della ricchezza, entri in crisi e veda la sua fine.