La domanda «cosa c’è? cosa esiste?» formulata nella nostra lingua, sembra viziata da un pregiudizio ontologico. Altre lingue non si impegnano affatto, circa gli enti che esistono; nel formulare l’interrogativo ontologico, evitano di riferirsi pregiudizialmente a cose; utilizzano termini neutri, più vicini al latino «quid» (per esempio: «what», «qu’est ce», «was»). Analogamente, per allontanare il sospetto di un pregiudizio ontologico, noi dovremmo ogni volta precisare che il termine «cosa» (nell’interrogativo «cosa c’è?») denota un ente generico, sulla natura del quale sospendiamo il giudizio; un ente che potrebbe essere effettivamente un oggetto, ma anche un pensiero, uno stato, un evento, una relazione o un processo.

Una illustre tradizione letteraria, teologica, filosofica e perfino scientifica è incline anzi a pensare che le cose non esistano proprio: che siano fantasmi, sogni, illusioni o costrutti. Di più: c’è chi pensa che sia vano interrogarsi sulla natura di «ciò che esiste», perché l’oggetto di questo interrogativo non rientra nelle nostre competenze: possiamo (al più) percepirne gli effetti, ma non possiamo sapere di «cosa» si tratti.
Per contro, altri sostengono che il fatto di intuire qualcosa e di tentarne qualche forma di descrizione ci impegna sull’esistenza di quel certo qualcosa; ci impone anzi di considerarlo come esistente, per il fatto stesso che iniziamo a descriverlo. Del resto, la nostra esposizione all’imprevisto (a ciò che non avevamo intuito, o descritto) rende arduo dubitare del fatto che «c’è qualcosa, “lì fuori” (o “qui dentro”)», indipendentemente dalle attese, dalle previsioni e dalle competenze che ognuno può farsene.

Per altro, nella vita ordinaria, noi ci comportiamo come se il «mondo lì fuori» (o «qui dentro») esistesse davvero: facciamo attenzione nell’attraversare la strada, evitiamo i veleni, cerchiamo di capire cosa abbia scatenato una certa emozione, ci impegniamo a evocare ricordi e a controllare la coerenza dei nostri ragionamenti. Siamo, in qualche misura, «realisti ingenui»; e anche «empiristi spontanei», visto che attribuiamo verosimiglianza alle sollecitazioni dei nostri recettori periferici (o, meglio, ai risultati di una loro elaborazione, di più alto livello). Ma non è detto che queste ingenue credenze si traducano in convinzioni filosofiche; anzi, noi potremmo essere convinti di questo: del fatto che dalla povertà dei nostri stimoli non è possibile trarre alcunché, circa la verità e la natura oggettiva del mondo (sempre ammesso che un mondo esista, che abbia una natura oggettiva e che qualche rappresentazione del mondo colga i suoi «fatti»). Ciò che vale nella vita ordinaria non è in genere ammesso come prova esauriente, al tribunale dei filosofi.

Ammettiamo però che certi enti esistano, e che i nostri tentativi di descriverli riescano a coglierne qualche aspetto. Poniamoci cioè dal punto di vista di chi crede che le nostre descrizioni del mondo non siano un mero gioco linguistico, un gioco che non prevede riferimento alcuno ad entità extra-linguistiche. Emerge allora il quesito: di cosa parlano le nostre rappresentazioni, quando si riferiscono a enti extra-linguistici? A cosa si riferiscono?

Potremmo condividere per esempio l’idea che – in diversi contesti o livelli di rappresentazione – esistono tavoli, nuvole, paure, gioie, elettroni, rivoluzioni, dolori, intenzioni, simmetrie, circonferenze e torte della nonna. Potremmo trovarci d’accordo sull’esistenza di questi enti. Che dire però dei quantificatori e dei connettivi logici, delle derivate prime o seconde, delle trasformate di Fourier, degli algoritmi ricorsivi che «girano» nei nostri personal computer? E, prima ancora, cosa dire dei termini che «saturano» questi operatori, costituendone gli argomenti? Che dire, cioè, delle variabili, delle costanti, delle funzioni e dei numeri? In che senso, e in quale contesto, possiamo asserire che questi enti esistono? Possiamo forse asserirlo in quel medesimo senso che ci porta a sospettare (per esempio) che un tavolo del nostro ufficio esiste davvero? O non si tratta, appunto, di enti puramente linguistici?

Proviamo una certa resistenza, dobbiamo riconoscerlo, ad ammettere che il numero pi-greco (il rapporto tra le circonferenze e il loro diametro), o la radice quadrata del numero due (il rapporto tra la diagonale di un quadrato e uno dei suoi lati) possano esistere nello stesso senso e nello stesso modo in cui esistono le torte della nonna. Tuttavia, ci sono buone ragioni per ritenere che – sotto un certo profilo – le cose stiano effettivamente così. In un recente e intenso volume titolato La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini (Adelphi, pp. 251, € 14,00) Paolo Zellini prova a convincerci proprio di questo. E lo fa, non limitandosi ad analizzare gli argomenti tradizionali del realismo (e del platonismo) in matematica; piuttosto, ci conduce nel cuore stesso della teoria e della pratica odierne della computazione: proprio là, dove il calcolo cerca di raggiungere risultati dei quali è assolutamente certa l’esistenza, ma dove il tentativo procede con grandissimo affanno, senza alcuna sicurezza di pervenire al risultato giusto. Qui, si manifesta una eccedenza della realtà matematica, rispetto alla possibilità di determinarla; si manifesta l’indipendenza della realtà matematica, rispetto alla capacità di catturarla. Non è forse questo, il carattere tipico del «mondo là fuori»?
Quanto al carattere «divino» della matematica, potremmo sollevare dubbi. Anche i libri sapienziali della tradizione vedica sono propensi a sospettare infatti che gli dèi siano un prodotto abbastanza tardo della creazione del mondo (Rig-Veda, 10, 129); e che, dunque, l’ordine matematico che governa il mondo possa precedere l’origine stessa delle divinità.

Zellini traccia però una linea molto suggestiva di continuità, tra le tecniche più antiche adottate nella costruzione dei templi, le leggi di corrispondenza tra le aree e di riduzione o ingrandimento delle forme, le regole di approssimazione dei numeri irrazionali, la «scoperta» dei numeri reali e delle proprietà del continuo, l’introduzione dei numeri transfiniti, i metodi di calcolo e di approssimazione utilizzati nella computazione odierna. E sottolinea che questi metodi sono appunto affetti da incertezze e da instabilità, le quali ne inficiano l’efficienza; sicché, la sicurezza di raggiungere la verità sembra ancora consegnata in questo campo alla beatitudine degli dèi, piuttosto che alla finitezza (ancorché coraggiosa e geniale) dei popoli del mondo.