A parte le spie, che hanno evidenti motivi per tenersi al riparo da occhi indiscreti, non c’è forse mestiere più misterioso dell’agente letterario. Provate a chiedere a qualcuno di loro su cosa si basano i loro introiti o anche, più semplicemente, come trascorrono le loro giornate lavorative, e otterrete sguardi sfuggenti e vaghi mugolii, come se avessero segreti che non possono divulgare, pena la vita.

Per questo non si può non salutare con interesse la pubblica esternazione di Kristin Nelson, titolare di un’affermata agenzia a Denver, Colorado, che nel suo sito ha pubblicato un post intitolato 14 Reasons Agenting Is Harder Now Than 20 Years Ago («quattordici ragioni per cui fare l’agente oggi è più difficile rispetto a vent’anni fa»).

Naturalmente Nelson premette che quanto scrive «non pretende di rappresentare un insieme di dati adeguato per completezza, accuratezza, utilità e neppure tempestività». Nessuna ricerca scientifica, insomma: solo un certo numero di domande inviate a colleghi che le hanno mandato risposte basate sulla loro esperienza. Ma vista la situazione, ci si può accontentare.

E dunque, ecco in sintesi gli ostacoli che incontra un agente letterario nel 2021. Il primo, evidente anche da questa parte dell’Atlantico, è che la professione è assai più affollata di un tempo. In particolare, nota Nelson, «negli ultimi cinque anni numerosi editor si sono riconvertiti in agenti» – un fenomeno che si riscontra pure in Italia. In parallelo i compiti delle agenzie letterarie sono aumentati: prima di essere sottoposto alle case editrici un testo è spesso oggetto di una più o meno faticosa rielaborazione, cui si aggiunge nelle fasi successive l’indispensabile lavoro di promozione in un mercato intasatissimo a tutti i livelli, a partire dal ruolo sempre più invadente dei social network.

Aumentano gli aspiranti autori, mentre le sigle editoriali diminuiscono o comunque tendono a concentrarsi all’interno di pochi grandi gruppi, e il primo effetto, quello più immediato, è che la massa di lavoro e i tempi si dilatano: «Nei giorni buoni – scrive Nelson – mi ritrovo con trecento email a cui dare risposta». Ma questo non significa una maggiore rapidità nella chiusura di un contratto, anzi: «Ai vecchi tempi concludevo un accordo in otto settimane al massimo. Oggi, se la prima bozza arriva entro quattro mesi, è una vittoria. E prima che l’autore firmi, l’agente deve rivederla e negoziarla. Sei mesi è la nuova norma per la definizione completa del contratto».

Se il problema di fondo, cui è dedicato il punto finale dell’elenco, è che in questi vent’anni il numero dei lettori non è aumentato, c’è un altro dato che avvelena la vita degli agenti, e non solo la loro – quella che Nelson definisce la «mentalità blockbuster»: «Nei primi anni 2000, si dava per scontato che un nuovo autore potesse aver bisogno di spazio e tempo per crescere, non ci si aspettava che un esordiente sfornasse un bestseller, ma che costruisse nel tempo la sua capacità di scrittura e il suo pubblico. Adesso, se un debutto non va bene, è estremamente difficile offrire all’autore una seconda possibilità, a maggior ragione se l’anticipo iniziale era alto».

Né la «mentalità blockbuster» danneggia solo gli agenti o gli scrittori che non mantengono le promesse del loro esordio. Un’autrice cui certo non è toccata questa sorte, l’irlandese Sally Rooney, di cui è in uscita il terzo libro, Beautiful World, dopo il successo mondiale dei due precedenti (Parlarne tra amici e Persone normali), ha dichiarato l’altro giorno al New York Times: «La cultura che circonda oggi gli autori non è di beneficio per nessuno. A vincere è solo il capitalismo».