L’Ossario austro-ungarico dell’Asinara, eretto nel 1936 in conformità alla legge fascista sui sacrari militari della prima guerra mondiale, è un monumento inatteso su un’isola che diviene nota a partire dagli anni ’70 con l’istituzione di carceri speciali destinati a mafiosi, brigatisti e banditi del calibro di Matteo Boe, l’unico a evadere da quel lembo di terra aspra e desolata.

Ma le storie sepolte, talvolta, tornano a galla. E non importa se ciò accade per l’altisonante Centenario della Grande Guerra. La memoria è paziente e non chiede vendetta. Semmai, giustizia. Così, il 25 settembre, a Stintino – fondata nel 1885 da esuli dell’Asinara ai quali lo Stato aveva espropriato i terreni per impiantarvi una colonia penale agricola e una stazione sanitaria – si è commemorata la deportazione dei prigionieri austro-ungarici e profughi serbi all’Asinara.

L'ossario austroungarico dell'Asinara
L’ossario austroungarico dell’Asinara

L’iniziativa s’inscrive in un progetto di partenariato tra i Comuni di Stintino e Porto Torres, il Parco Nazionale dell’Asinara e le Università di Belgrado e Sassari, volto alla valorizzazione del patrimonio storico dell’isola del nord Sardegna. Esponenti politici – fra cui il presidente del Comitato storico-scientifico per gli anniversari d’interesse nazionale Franco Marini e il sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi –, rappresentanze diplomatiche, autorità militari e studiosi, si sono incontrati per riflettere sugli errori del passato e dare un senso al presente attraverso il recupero della memoria storica. Uno degli obiettivi dell’accordo promosso dal sindaco di Stintino Antonio Diana, è infatti la realizzazione di un percorso culturale che segua le orme dei prigionieri austro-ungarici e dei profughi serbi.

I ruderi di vecchi ospedali e accampamenti che spuntano dalla macchia mediterranea in località Stretti e Tumbarino sono le sentinelle di una vicenda della quale l’isola-carcere non fu che il drammatico epilogo. Il calvario iniziò nell’inverno del 1915, quando l’esercito serbo – costretto alla fuga dall’attacco delle truppe alleate tedesche, bulgare e austro-ungariche – dovette intraprendere una lunga marcia da Niš verso l’Albania, trascinando con sé circa 40mila uomini. Dopo nove settimane, il 15 dicembre, solo un terzo di essi arrivò al porto di Valona. Qui, i superstiti vennero affidati alla Marina Militare Italiana che, a causa del rapido diffondersi di malattie infettive tra le masse, decise di predisporre un immediato piano di evacuazione. L’Asinara, quasi disabitata e assurta da fine Ottocento a lazzaretto del Mediterraneo, fu designata come luogo di «accoglienza» per i reietti del conflitto.

A diverse ondate, su piroscafi dai nomi colti o evocativi (Dante Alighieri, America), che ricordano però i barconi carichi di miseria del nostro tempo, circa 24mila soldati toccarono le coste dell’isola sinuosa (Sinuaria la chiamavano gli antichi romani). Da questo momento scoppiò un’immane emergenza umanitaria, alla quale i pur mirabili sforzi delle autorità sanitarie locali non riuscirono a far fronte. La stazione di quarantena di Cala Reale poteva ospitare, allora, meno di mille unità e le navi erano obbligate a sostare in rada mentre sulla terraferma si predisponevano i campi di concentramento. Durante l’attesa, moltissime persone perirono tra le sofferenze e si racconta che i cadaveri, gettati in mare, raggiungessero i litorali della Sardegna. La morte fece copiosa messe anche negli accampamenti di Fornelli, Stretti, Campu Perdu e Tumbarino (circa 7mila le vittime attestate) dove i prigionieri erano stipati – senza separazione tra sani e infermi – in tende dal suolo di paglia o canne: le loro condizioni di salute, aggravate da malnutrizione, mancanza di acqua potabile e carenza di medicinali, determinarono anche la diffusione del colera.

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Particolare interno dell’ossario (foto di Vittorio Mazzarello)

Dal 2014 un gruppo di ricerca guidato da Salvatore Rubino – docente di microbiologia all’Università di Sassari – conduce un progetto di bio-archeologia basato sulla genomica e finalizzato all’identificazione delle infezioni che colpirono in maniera letale i prigionieri austro-ungarici. Finora è stato possibile prelevare dall’Ossario alcuni denti, la cui polpa – sottoposta a sequenziamento del dna – ha permesso di rilevare microrganismi patogeni come staphylococcus e salmonella. Se gli scavi archeologici in programma nelle zone cimiteriali dovessero portare alla scoperta di ulteriori reperti organici, future analisi potrebbero far emergere anche il Vibrio cholerae, investigato per la prima volta all’Asinara nel 1915 dal batteriologo Luigi Piras.

Sebbene molti prigionieri fossero afflitti da disagio psicologico, il diario del ceco Josef Šrámek tramanda stralci di vita. Partite di calcio, esibizioni musicali degli stessi internati e la pubblicazione di giornali e riviste satiriche, contribuivano a placare i contrasti fra persone di differente nazionalità e alleviavano il senso di emarginazione dal mondo, allontanando dal ristretto orizzonte lo spettro della fine.

Fra i prigionieri di guerra detenuti all’Asinara vi erano anche pittori e scultori. Di una base di statua in pietra – erosa da raffiche di vento e oblio – rimane, solitaria, la raffigurazione della morte. Forse un monito del destino, affinché l’impietosa falce serva oggi da spauracchio e sia strumento di liberazione per l’Asinara e tutte le isole della riva nord del Mediterraneo, troppo spesso ingrato approdo di popoli in cerca di asilo.