Nascere a Reims nel dipartimento della Marna, in Francia, significa vivere nella memoria di un territorio storicamente attraversato dalle più cruente battaglie mai viste in Europa. La Marna è uno dei luoghi che più hanno pagato dazio in termini di vite umane e di occupazioni alle politiche figlie dei nazionalismi più beceri e che molto avrebbe da dire alle tristi mode politiche di questi ultimi anni. Nascere nel Grand Est francese significa quasi sempre essere figli di agricoltori o in alternativa di operai, quindi proletari spesso destinati a restare ancorati al lavoro dei padri.
IN QUESTO SOLCO, duro e aspro, – nonostante la retorica del marketing dello Champagne – cresce e fugge il filosofo e sociologo Didier Eribon che con Ritorno a Reims, (Bompiani, pp. 216, euro 18, traduzione di Annalisa Romani) regala un testo capace di coniugare biografia e memoria, analisi teorica e insieme il ritratto di una generazione in lotta tra politica e diritti civili. Un libro denso e raro che evita accuratamente il paradigma dell’autofiction per raccontare senza facili compromessi, ma anzi entrando nelle pieghe di una memoria che si sorregge non solo delle proprie soggettive impressioni, lo sforzo di un lavoro culturale testardo e ostinato.
ERIBON proviene da una tipica famiglia operaia in cui il padre detta legge e in cui la madre è costretta ad un doppio lavoro dentro e fuori casa sia per aiutare il reddito famigliare, ma anche per non oscurare il marito quale principale fonte di sostentamento.
Una famiglia che vota comunista e che insegue giorno per giorno, nella Francia del dopoguerra, il suo spicchio di benessere: l’automobile, le gite fuori porta, il frigorifero e in cui la politica entra come elemento identitario senza tuttavia riuscire a scalfire una dinamica relazionale segnata da un profondo maschilismo, da omofobia e soprattutto da uno sguardo incapace di immaginare uno spazio possibile di crescita.
UNA LOTTA DI CLASSE perenne che non prevede un avanzamento culturale e sociale ma al massimo economico, quale unico vero elemento di misurazione del benessere. Da tutto questo il giovane Didier Eribon fugge per circa vent’anni costruendosi pezzo a pezzo e con enorme fatica un proprio percorso intellettuale e poi professionale: dapprima come giornalista culturale a Libération e al Nouvel Observateur, poi come visiting professore a Berkeley, Cambridge e al King’s College. Eribon vive a Parigi e frequenta Pierre Bourdieu, scrive un’importante biografia di Michel Foucault, frequenta il mondo intellettuale e vive liberamente la propria omosessualità, rimuove tuttavia con vergogna la propria origine sociale e famigliare, giusto di tanto in tanto sente al telefono la madre, ma avverte la contraddizione tra il mondo da cui è scappato e il mondo a cui sente di appartenere e che ha come causa politica proprio quella del proletariato.
SARÀ LA MORTE del padre l’occasione obbligata del ritorno a Reims. Un lungo ed emozionante dialogo con la madre riaprirà così le dighe di un passato che entra dirompente nel presente rivelandosi agli occhi del ragazzino che fu come a quelli dello studioso attento a non confondere i sentimenti con una ricostruzione puntuale del proprio spazio nella società così come del proprio ruolo. Ritorno a Reims è una lezione di come la memoria possa essere strumento sì di conoscenza, ma, soprattutto, su come vada indagata e gestita.
CRESCIUTO alla scuola del movimento gay intellettuale americano, Eribon abbatte i miti di una Francia che si crede post-rivoluzionaria e che in realtà cavalca dagli anni Ottanta un liberismo ideologico che ha ristretto spazi e possibilità alle classi più povere, e lo fa partendo da una critica a sinistra che precede in parte il disastro della presidenza Hollande e l’attuale cinica deriva macroniana.