È una storia che muove dalla Storia. Quella che scorre tra le pietre della valle del Sangro, che ammutolisce nei campi di sterminio, per riprendere linfa nella roccia della Majella. È nato così, tra vissuti perduti e ritrovati e grazie ad una generosa raccolta fondi, il primo monumento in Italia, il secondo in Europa dopo Berlino, dedicato al «Samudaripen», all’olocausto di rom e sinti. Da ieri si trova a Lanciano, in provincia di Chieti, collocato nel Parco delle Memorie.

Il monumento eretto a Lanciano in memoria dell’Olocausto di rom e sinti Foto di Massimiliano Brutti

Samudaripen, letteralmente tutti morti. È il termine con cui la popolazione di lingua romanì indica il genocidio perpetrato nei suoi confronti durante la Seconda guerra mondiale. «Ammazzati in 500mila – riflette Santino Spinelli, in arte Alexian, musicista, compositore, docente universitario ed autore -. Una scia di sangue e di massacri spesso dimenticata. Ignorata». Non da lui, che un po’ custode, un po’ testimone, un po’ ambasciatore delle tradizioni e della cultura rom nel mondo, ha deciso che di essa avrebbe dovuto esserci una traccia indelebile. Con un monumento. «Che sia di avvertimento severo ai rigurgiti xenofobi e razzisti di questi tempi, agli errori ed orrori umani».

«ERA L’11 SETTEMBRE 1940 – ricorda Spinelli- quando dal ministero degli Interni fu emanato un telegramma che disponeva l’internamento specifico di rom e sinti, dando l’avvio ad una sistematica persecuzione». «Disponesi – recitava il documento – che gli zingari… di nazionalità italiana certa o presunta ancora in circolazione vengano rastrellati nel più breve tempo possibile e concentrati sotto rigorosa sorveglianza…». «Vennero istituiti – riprende Spinelli – campi ovunque dove gli internati furono costretti in condizioni difficili, spesso disumane».

Mille vicende, di quel periodo, si intersecano e si intrecciano. E tra esse c’è quella di Gennaro Spinelli, classe 1937, padre di Santino, figlio di Rocco e di Rosa Bevilacqua. «Erano in ventisei – rammenta Santino -, divisi in quattro nuclei familiari imparentati tra loro, e furono prelevati dai militari a Paglieta (Ch), nella casa di via del Sole». Furono caricati «a forza, con brutale violenza, tra urla, pianti e schiamazzi», su camionette militari e rinchiusi in un campo cinto da filo spinato, nei pressi di Torino di Sangro (Ch). «Ai bambini furono tagliati i capelli. Vennero poi portati a Bari su di un carro bestiame».

Dal capoluogo pugliese vennero trascinati nell’entroterra lucano, in uno stabile a Rapolla, a 18 chilometri da Melfi (Potenza). «Lasciati al freddo, senza servizi igienici, dormivano per terra. Mangiavano ciò che riuscivano a trovare, anche attraverso il “mangel”, la questua. Spesso si nutrivano di scorze di patate e di fave. I bimbi venivano riscaldati dalle donne avvolgendoli nelle loro vesti lunghe e ampie». Da un lato la disperazione, dall’altra la strafottenza.
«MENTRE LI STRAPPAVANO al loro quotidiano, cantavano Yuppi Yuppi Ya Ya. Un motivetto – fa presente Spinelli – che ancora risuona nella testa di mio padre. Che all’epoca aveva appena 5-6 anni». Un bambino, «o chavurò».

Dopo l’Armistizio molti campi vennero chiusi «e gli internati liberati. A ciò – sottolinea Santino Spinelli – contribuì anche l’avanzata degli alleati, che risalivano la Penisola. L’VIII Armata conquistò Termoli (Campobasso) il 3 ottobre». A quel punto il piccolo Gennaro tenendosi alla gonna di sua madre, che teneva in braccio un altro «chavurò», di età inferiore, tornò con gli altri, a piedi, in Abruzzo, calcando strade secondarie e campi. Qualcuno, gravemente ammalato, morì. «Furono fortunati – dichiara Santino – perché centinaia di migliaia di altri prigionieri della follia nazifascista, vennero indirizzati verso l’abominio di Auschwitz-Birkenau». Mezzo milione – si calcola – soppressi nei forni crematori, trucidati per la loro etnia, vittime di atroci esperimenti e mutilazioni.

«Io ricordo, perché io c’ero – attacca la senatrice Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah, in una lettera inviata, per l’occasione, al presidente Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) Luigi Manconi -. C’ero in quei campi di sterminio in cui, insieme agli ebrei anche altre minoranze vennero annientate. E dire che ad Auschwitz inizialmente la condizione dei prigionieri nel “lager degli zingari” aveva suscitato la nostra invidia. Lì non erano stati separati gli uomini dalle donne, gli abili al lavoro dagli inabili, e le famiglie erano unite e avevano conservato anche i loro vestiti.

Sentivamo le loro voci, le voci dei bambini, li consideravamo privilegiati. Ma una mattina non li sentimmo più e nelle loro baracche vuote regnava un silenzio spettrale. Durante la notte erano stati condotti nelle camere a gas».
SANTINO SPINELLI è venuto su ascoltando dai genitori, da suo padre, quella storia d’infanzia. «L’ho sentita rimbalzare tra i muri in cui sono cresciuto, saldarsi sulla pelle». Con un pensiero fisso al «chavurò», a quel bambino, sì italiano, «ma non protetto dalla sua Patria. Un bambino, – commenta – la linea di demarcazione tra la barbarie e la civiltà». Cinquecentomila assassinati. «Mai adeguatamente ricordati».

DA QUI PRENDE FORMA il monumento, dello scultore Tonino Santeusanio, di Crecchio (Chieti), capace, col suo scalpello, «di scuotere l’uomo dal torpore cronico». Un’opera in pietra della Majella, che ritrae una donna, «simbolo di potenza creatrice», con un bimbo fra le braccia, con la gonna impigliata nel filo spinato, che riesce a liberarsi e così a proseguire, oltre. Accanto, una ruota simbolo del viaggio, della libertà di essere e di sognare. Il lavoro è stato realizzato grazie a donazioni, ad un crowdfunding che ha coinvolto – spiega Spinelli – centinaia «di amici, sessanta associazioni, artisti, da nord a sud d’Italia, ed anche internazionali, che mi hanno incoraggiato, supportato, affiancato». Niente soldi da politici e/o istituzioni, «per non innescare polemiche».

Al progetto hanno collaborato, sostenendolo, i Comuni di Lanciano e di Laterza (Taranto) che sono da poche ore gemellati; l’Anpi (Associazione nazionale partigiani) sezione «Trentino La Barba» di Lanciano, l’Unar, la Presidenza del Consiglio dei ministri, l’associazione Them Romanò onlus, l’Ucei (Unione delle comunità ebraiche italiane) e l’Università degli studi «d’Annunzio» di Chieti-Pescara, dove, in questi giorni, studiosi e accademici di mezza Europa hanno stilato e firmato un documento ufficiale che riconosce il samudaripen. «È nei momenti più difficili – chiude Spinelli – che la difesa dei diritti rappresenta il segno tangibile della civiltà di un Paese».