Forse il cammino dell’Europa può ripartire soltanto dai Comuni rinnovati e all’altezza del compito nuovo cui sono chiamati. È dalla loro autonomia che può nascere il nuovo Stato Europeo, non da processi dall’alto gestiti da guru di quella scienza astratta che è l’economia. Perciò è importante vedere ciò che si muove alla base del territorio europeo. E magari alle sorprese che possono venire dai paesi ritenuti a torto marginali. Il Mavi (Museo Antropologico Visivo Irpino) di Lacedonia, in Alta Irpinia, è (potrebbe essere) un esempio di mallevadoria del passaggio dal Comune italiano a quello europeo, se naturalmente le ambizioni degli organizzatori sapranno essere all’altezza della storia e degli imperativi del nostro tempo.
Certo Lacedonia non è più quella descritta da Francesco De Sanctis nel memorabile Viaggio elettorale di 150 anni fa. Non è neanche quel paese pieno di speranze e di lotte del dopoguerra. Oggi è uno dei tanti paesi dell’Appennino meridionale svuotati di persone (giovani, innanzitutto, che hanno preso l’antica strada dell’emigrazione di massa), di servizi, di speranze nel futuro. Ma è proprio al futuro, e a un futuro autentico che si nutre delle conoscenze e della saggezza del passato, che rimanda una struttura come questa. Il problema – questo è il punto principale – è che abbia l’ambizione di rifondare anche una materia difficile come l’antropologia (e soprattutto quella visuale, poi), esposta ad ambiguità intellettuali che l’allontanano spesso dalla sua vera funzione che è quella, sì di studiare gli uomini e i loro comportamenti nel tempo, ma soprattutto di interagire vitalmente con loro.
Il Mavi è nato da un lascito dell’antropologo e fotografo americano Frank Cancian (cognome trentino frutto dell’emigrazione dei suoi avi in America) che, raggiunto fortuitamente dopo molti anni da appassionati di Lacedonia che avevano visto in internet alcune fotografie del loro paese, ha donato alla struttura museale mille e ottocentouno foto del suo viaggio del 1957 a Lacedonia. Un viaggio studio di un giovane che è già appassionato di fotografia e, come capita in quegli anni a molti studiosi americani, interessato al Sud d’Italia. Questo contatto con Cancian dapprima dà vita a un libro-catalogo (Lacedonia. Un paese italiano 1957) e poi al lascito di tutto il suo patrimonio fotografico riguardante questo borgo. Racconta Rocco Pignatiello, curatore del volume e uno dei protagonisti di questa avventura: «Il nesso è tra il mondo del passato e quello del futuro. Oggi un mondo intero sta scomparendo: la piazza, i vicoli, da luoghi di incontri, ma anche di conflitti, sono vuoti. I suoni delle orchestrine per matrimoni e feste, le ninne nanne, le filastrocche e i proverbi, la musica della banda nelle processioni e nei funerali, i sonetti degli ubriachi, sono sempre più rari. Lo sguardo di Cancian è libero da pregiudizi e da stereotipi. Con la sua macchina fotografica si avvicina alle persone con grande curiosità, col desiderio di scoprire, con il gusto di catturare immagini, ma anche con grande rispetto. Non guarda quel mondo mettendosi al di fuori o al di sopra, tipico di chi pensa di essere superiore all’altro, ma coglie l’altro nella sua autonomia. Le foto di Frank Cancian, anche se scattate quasi sessant’anni fa, ci emozionano e ci parlano ancora oggi, ma ci spingono anche a riflettere sulla storia di quegli anni. Lì sono le radici del nostro presente. Da lì bisogna ripartire se si vuole progettare il futuro».
Già, ripartire da lì, da quegli anni che hanno forgiato, nel bene e nel male, il progresso italiano. Da quegli anni che hanno visto il nostro Sud investito da una grande scuola di antropologia politica, da intellettuali, anche stranieri, che hanno attraversato il nostro Mezzogiorno regalandoci inchieste e idee.
Su Frank Cancian, venuto dopo sessant’anni nell’estate scorsa a rivisitare il paese del suo antico viaggio e della sua gioventù, sta montando un video il regista Michele Citoni. Un’opera di cui parleremo a suo tempo. Il fotografo racconta la sua avventura ma anche la sua filosofia antropologico-visiva: «Sono un fotografo documentario con un punto di vista. Ma è l’ordinario, la comunicazione della bellezza dell’ordinario, in cima alla mia visione. Prendere qualcosa che normalmente non si nota, (che so: mostrare cosa fanno le persone, come tengono le mani) e rivelarne l’aspetto interessante anche se è una cosa semplice. Così accade che, spesso, ogni cosa può avere un significato se lo sai vedere. E se sai farlo vedere, è stupendo!».
Visitare il Museo e le foto esposte, ma soprattutto tutto il suo patrimonio fotografico che scorre su alcune piattaforme video, è davvero un tuffo al cuore. Molti degli scatti sono di un’emozione unica da cui fuoriesce, come in uno scrigno dimenticato, un tesoro nascosto, lo choc («rivoluzionario» lo chiamerebbe Pasolini) della presenza viva del passato, dei paesi come comunità vere, dei volti pieni di storia e significato, della fatica per vivere e della fatica di vivere ma anche della gioia della festa, dei sorrisi vitali che esprimono ansia di futuro migliore. Epperò anche volti pieni di dolore, di presagio di sconfitte che preparano una religiosa rassegnazione. Insomma un viaggio fotografico in uno dei paesi del Sud che diventa non solo perlustrazione nella memoria ma anche ricerca per un futuro possibile e degno.
In un periodo storico ingolfato in un presente banale e senza prospettive, il progetto del Mavi, che ha come base strategica e di studio continuo il patrimonio Cancian, non si ferma lì. Ma continua nella costruzione di una biblioteca antropologica, negli spazi di proiezioni e performance all’interno e nel giardino all’aperto, nelle manifestazioni, convegni e perlustrazioni degli autori antropologici. Un programma ambizioso che inizierà a breve i suoi primi passi. Un fiore all’occhiello dell’Alta Irpinia. Un germe di futuro sicuramente. Soprattutto un «ingresso» in Europa vero, non parolaio, non lamentoso.