Sono trascorsi precisamente tre anni da quel crudele 25 gennaio 2016 che registrò la scomparsa di Giulio Regeni dalla stazione Al Buhuth della metropolitana del Cairo. Come tutti gli anniversari, anche questo potrebbe avere il destino di stiepidire sotto una osservanza solo rituale o potrebbe riempirsi di promesse e belle speranze, con il risultato di essere una ricorrenza ossequiosa e vuota insieme.

La distanza delle date che, giorno dopo giorno, si avvicendano con il loro cumulo di fatti rischia insomma di separarci sempre di più dalla vicenda materiale di Giulio Regeni, sbiadendone il ricordo e illanguidendone l’urgenza. Come evitarlo? Un modo è quello di porsi questa domanda: a distanza di trentasei mesi dalla scomparsa di Regeni, che cosa è cambiato?

Verrebbe da dire: quasi nulla, se consideriamo esclusivamente il piano politico-diplomatico e istituzionale. Ancora oggi non ci sono stati quei «nuovi e importanti progressi nella cooperazione tra organi investigativi sul caso Regeni».

Quei «progressi» evocati nelle primissime dichiarazioni dell’attuale governo appena insediato e che, secondo quello stesso governo, sarebbero stati ottenuti in virtù del «graduale rafforzamento del dialogo bilaterale con le autorità egiziane». Sul versante delle indagini, non sono emerse novità decisive e l’azione diplomatica, nonostante il rientro dell’ambasciatore deciso dal precedente esecutivo, non ha ottenuto finora risultati concreti producendo di fatto tre anni di stallo. Ma se guardiamo altrove, nelle pieghe della società italiana, si rintraccerà altro.

Certo, non si pretende qui di dettare l’agenda delle prossime azioni diplomatiche dei due governi, né di modificare la politica estera italiana di ordire l’architettura perfetta di un piano che porti allo smantellamento completo del regime dispotico egiziano. E, d’altro canto, non si sottovaluta neanche la miriade di esperienze quotidiane che formano gli affanni e i pensieri di tutti i giorni, di tutti noi.

Quel che chiediamo in questa giornata è di continuare a scavare un sentiero alla ricerca della verità. Ognuno come può. C’è chi ricopre ruoli istituzionali e ha il dovere e i mezzi per aprire quei varchi politico-diplomatici che reclamino senza ombre l’accertamento delle responsabilità giudiziarie nella sparizione, nella tortura e nell’uccisione di Giulio Regeni. E c’è chi può partecipare a una delle tante iniziative promosse quest’oggi in diverse città italiane o limitarsi a indossare il braccialetto giallo che reca la frase «Verità per Giulio Regeni».

Accostare due capacità tanto distanti di intervento e di adesione a quella ricerca di giustizia sembra un espediente beffardo e irriverente. Eppure sono due risposte alla stessa presenza di quel nome, e di ciò che evoca di sofferenza e di male assoluto. Ma il nome di Giulio Regeni evoca anche enormi questioni di diritto e di libertà. Siamo eredi di questa ricchezza incalcolabile, di un patrimonio che tiene insieme la tutela irrinunciabile della persona, della sua incolumità e della sua dignità e la lotta per affermare i diritti umani, ovunque: nei regimi totalitari così come all’interno degli stati democratici.

L’ultima canzone che Giulio Regeni ha ascoltato prima di scendere le scale della metropolitana del Cairo tre anni fa è A Rush of Blood to the Head, dei Coldplay. Un verso di quella canzone dice: «Se mi puoi dire qualcosa per cui vale la pena combattere». La figura, densa di vita, che ricordiamo oggi e il calvario di dolore che lo ha ucciso e che continua a uccidere centinaia su centinaia di egiziani non smette di suggerirci quel qualcosa per cui vale la pena combattere.