Sono passati 15 anni dalla morte in un ospedale parigino di Abu Ammar, il nome di battaglia con cui era conosciuto il leader palestinese e presidente dell’Olp Yasser Arafat. Un uomo che tra decisioni passate alla storia e non pochi passi falsi ha segnato 40 anni di Medio Oriente e rappresentato sui tavoli della diplomazia la causa del popolo palestinese. La sua morte resta ancora un mistero. Sua moglie, Suha Tawill, e un po’ tutti i palestinesi sono convinti che Arafat sia stato avvelenato da spie di Israele.

 

La memoria sente il peso del tempo che passa, eppure la vicenda politica ed umana di Arafat è patrimonio anche della nuova generazione palestinese. Ieri a Ramallah e in altre località della Cisgiordania si sono svolte varie commemorazioni per Abu Ammar. E durante le cerimonie nel campo profughi di al Arroub, nei pressi di Hebron, l’esercito israeliano ha ucciso un giovane dimostrante, Omar al Badawi, 22 anni. Un altro palestinese è stato ferito nel campo al Fawar. A Gaza il governo del movimento islamico Hamas ha proibito la commemorazione pubblica organizzata da Fatah, la formazione politica di cui Arafat è stato leader per decenni.

 

Proprio Fatah è sotto osservazione in questi giorni. Il declino subito dal movimento – al quale per molti anni ha fatto riferimento la maggioranza dei palestinesi – dopo la morte di Arafat non si è arrestato. Il suo leader, l’84enne presidente dell’Autorità Nazionale (Anp) Abu Mazen, al potere dal 2005, non è stato in grado di infondergli nuova energia e di farlo riemergere dal fallimento degli Accordi di Oslo con Israele del 1993. Fatah non ha trovato contromisure politiche e sociali efficaci per contrastare la crescita di Hamas. «Fatah è isolato, Arafat aveva portato il movimento sulla scena mondiale, lo aveva reso protagonista, oggi non è più così», spiega al manifesto l’analista Ghassan Khatib, « (Fatah) è prevedibile. Arafat era capace di grandi svolte, di scelte decise, giuste o sbagliate che fossero. Da quando non c’è più lui, Fatah non sa andare oltre la linea asfittica del negoziato (con Israele)». Infine, aggiunge Khatib, «le divisioni interne, lo scontro tra Abu Mazen e il suo rivale Mohammed Dahlan e la lotta per il potere dei suoi dirigenti, hanno appannato l’immagine di Fatah, in particolare tra i più giovani».

 

Il caos ai vertici e l’incertezza sui passi da muovere sono di nuovo evidenti da quando Abu Mazen ha affermato qualche settimana fa la volontà di andare a nuove elezioni legislative e presidenziali in Cisgiordania, Gaza e a Gerusalemme Est, 14 anni dopo le ultime votazioni. A dire il vero non è la prima volta che Abu Mazen fa un annuncio simile. E sempre in passato la spaccatura netta tra Fatah e Hamas e tra Cisgiordania e Gaza, hanno mandato tutto in fumo. «Anche stavolta, nonostante i segnali di disponibilità giunti dalle varie parti, difficilmente vedremo i palestinesi andare alle urne», prevede Khatib che esclude che Israele permetta lo svolgimento delle votazioni anche a Gerusalemme Est (la zona araba della città), come chiedono i palestinesi.

 

Al voto in ogni caso Fatah andrà senza idee e con il dogma di Abu Mazen come «unico candidato» a presidente del movimento. Lo hanno comunicato sabato scorso i suoi dirigenti ribaltando quanto aveva affermato uno di loro, Jibril Rajoub, un ex capo della sicurezza interna e attuale presidente della Federcalcio palestinese, che da oltre venti anni è indicato come possibile successore prima di Arafat e poi di Abu Mazen. Intervistato da Palestine TV, Rajoub ha parlato di Abu Mazen come di uno «sheikh al ashira», lo sceicco della tribù, una sorta di padre spirituale per i palestinesi e Fatah e non più leader politico. E invece ha vinto la linea di Hussein al Sheikh, il dirigente di Fatah e dell’Anp che tiene i contatti con Israele, favorevole a confermare al comando Abu Mazen che tra due mesi festeggerà gli 85 anni. Con al Sheikh si sono schierati pezzi grossi come Mahmoud al Aloul, vice presidente di Fatah, il negoziatore Azzam al Ahmad, Dalal Salameh e Jamal Muheissen. Una battaglia intestina per molti inutile. Nessuno crede che le fazioni palestinesi troveranno i compromessi per andare al voto.