«Con questo film ho rivisitato un periodo della mia vita» afferma Alfonso Cuarón del suo ultimo film Roma. «E ho cercato di farlo in modo molto specifico.» L’autore messicano è stato protagonista della mostra del cinema tre anni dopo aver presentato qui Gravity, l’avventura spaziale che dal lido sarebbe poi decollata verso l’Oscar. Sarebbe difficile immaginare un film più diverso con cui ripresentarsi sugli schermi che questa storia decisamente terrestre, cronaca intima e misurata di interni famigliari col suo quotidiano scorrere di rituali che scandiscono l’infanzia di tre figli di una famiglia borghese in crisi. Una introspezione autobiografica che ha la precisione di una indagine scientifica ma anche tutto il lirismo di una lettera d’amore. Il titolo del film (uno di una mezza dozzina arrivati in laguna quest’anno col marchio Netflix) è il nome del quartiere di Città del Messico in cui Cuarón è cresciuto coi fratelli, la nonna il padre poi solo la madre dopo l’abbandono di quest’ultimo. Eppure lo sguardo narrante su questa storia sommamente personale è affidato alle giovani domestiche (Mixteche di Oaxaca) che convivono con la famiglia. Di queste soprattutto Cleo (la straordinaria non professionista esordiente Yalitza Aparicio) è una figura materna e protettiva per i figli, soprattutto durante il travaglio provocato dalla separazione dei genitori. Un film il cui limpido bianco e nero (la fotografia dello stesso Cuarón) evoca a tratti il paesaggismo messicano di Edward Weston o Tina Modotti e che sullo sfondo della storia intima ritrae un Messico convulso dagli sconvolgimenti politici e sociali che, nei primi anni 70 in cui è ambientato, segnavano uno dei tanti momenti convulsi e violenti della sua storia. Abbiamo incontrato il regista durante la sua permanenza veneziana.

Come ha affrontato il lavoro autobiografico?

Ho cercato di evitare un approccio obliquo, nel senso che ho riprodotto la casa della mia infanzia centimetro per centimetro. Ho ritrovato circa il 70% della mobilia originale di casa mia. Ho cercato attori che fossero il più possibile identici ai veri personaggi e li abbiamo vestiti costumi uguali a quelli del periodo: il 90% delle scene sono venute direttamente dai miei ricordi. È risultato il ritratto di un periodo che fa sì parte di chi sono, ma è anche chiaramente frutto dello sguardo di un uomo che si guarda indietro dai suoi cinquant’anni con la prospettiva di chi è diventato «oggi». È un film che ha molto a che vedere con l’invecchiare, col confrontarsi coi ricordi che implica e come questo può definire la nostra identità attraverso il conflitto tra chi siamo oggi e chi eravamo. È uno sguardo filtrato dal presente, dalla consapevolezza acquisita di tematiche come la diseguaglianza di classe e il rapporto perverso fra classe e razza in quella società. E poi c’è l’emergere di una coscienza femminile e i rapporti fra i sessi oggi così prevalenti.

Come ha preparato il film?

Come per gli altri che ho girato in passato ho iniziato con una ricerca meticolosa. Per I figli degli uomini si è trattato di una ricerca scientifica e sociologica, per Gravity soprattutto tecnologica. In Roma la ricerca è consistita soprattutto nello scavare nel mio passato, per riesumarlo. Non ho volute accettare nulla che non fosse effettivamente esistito all’epoca. La casa doveva essere identica, perfino nei cassetti che non vengono mai aperti abbiamo messo gli stessi oggetti di allora. È stato un processo singolare al punto che ero l’unico sul set ad avere la sceneggiatura.

Un’opera anche sul suo paese?

Sono stato spinto dal desiderio di tornare in Messico e girare laggiù un film in spagnolo con tutti i mezzi del mestiere hollywoodiano, quindi formato 65mm effetti digitali eccetera. Torno spesso, tre quattro volte l’anno, ma da molto non trascorrevo un periodo così lungo nella città in cui sono cresciuto. Le riprese sono durate 110 giorni durante i quali il mio rapporto col Messico è divenuto molto interno e complesso. Da un lato ho realizzato, circondato da una giovane troupe di Messicani, di quanto tutto sia cambiato e dall’altra di quanto tutto sia in fondo rimasto uguale. Ma non voglio prendermela col Messico, perché in realtà è in tutto il mondo che i problemi legati alla razza, le classi e le donne sembrano semmai essersi acuiti.

Un film in bianco e nero in cui perdipiù ha curato lei stesso la fotografia…

Sul bianco e nero non ho mai avuto dubbi non è mai stato in discussione l’ho sempre visto così, non voglio intellettualizzare la scelta. Ma abbiamo girato in 65mm digitale, con una risoluzione immensa rispetto alle pellicole meravigliosamente sgranate degli anni 50 e 60. Per quanto riguarda la decisione di dirigere io stesso la fotografia, di solito se su un film qualcosa va storto il regista ti dirà che la colpa è del direttore della fotografia e il direttore della fotografi che il regista è uno stronzo (ride, ndr). Probabilmente avrei potuto farlo con Chivo (Emmanuel Lubezki, il direttore della fotografia premiato con tre Oscar consecutivi per la fotografia, due per film di Inarritu e uno di Cuarón, ndr) visto il nostro rapporto generazionale e telepatico, anzi lui l’avrebbe realizzato più velocemente. Ma il fatto di farlo io stesso mi ha obbligato a passare più tempo sul set e pensare davvero a ciò che facevo invece di delegare la ripresa a qualcun altro. E stando di persona su quel set che riproduceva il salotto e il cortile in cui sono cresciuto, ha a sua volta innescato ulteriori ricordi che hanno arricchito il film.

Amazon e Netflix sono stati grandi protagonisti di questa mostra, come vede l’attuale evoluzione?

Certo per un film girato in 65mm, il luogo ideale per vederlo è il grande schermo. Ma riconosco che oggigiorno molte persone non abbiano tempo per questo, e magari non l’apprezzerebbero nemmeno più tanto. Le abitudini e i modi per fruire del cinema sono così cambiati da quando ero un ragazzo io, allora davamo la caccia a tutto quello che si poteva vedere setacciando i cineclub – il nostro sogno era di avere accesso a più film, qualcosa che ora è effettivamente a portata di mano. Per questo non mi convincono del tutto le critiche a Netflix, perché è un azienda che promuove un enorme varietà di cinema. Supportano un film messicano in bianco e nero come un film coreano o taiwanese o spagnolo e altrove in modi che non farebbero gli studios tradizionali, e questo lo trovo esaltante. Basta vedere le opportunità che si offrono non solo a giovani registi emergenti, ma anche ad autori affermati che altrimenti non troverebbero canali per finanziare progetti personali.