Il nazismo come storia famigliare dove si mescolano, al coinvolgimento dei padri nell’orrore, i caldi ricordi dell’infanzia e le complicità degli affetti. È una materia quanto mai complessa e talvolta contraddittoria che tiene insieme la memoria pubblica e i molti silenzi della vita privata quella che affronta Tania Crasnianski nel suo I figli dei nazisti, traduzione di Francesco Peri, (Bompiani pp. 268, euro 18,00), un’indagine che ripercorre le traiettorie esistenziali di alcuni dei discendenti dei maggiori dignitari del Terzo Reich.

La ricerca si snoda attraverso otto biografie di figlie e figli dei fedelissimi di Hitler, tra cui quelli di Himmler, Göring e Mengele, nati tra il 1927 e il 1944, il cui nome è legato in modo indelebile a quel terribile passato. Una ricostruzione dettagliata delle loro vicende che descrive anche uno spaccato della vita dell’élite nazista, con i suoi riti e i suoi cliché, i contrasti interni e le gelosie, la presenza costante del Führer, spesso padrino di questo o quel pargolo dei suoi più stretti collaboratori e complici, le case da sogno su laghi e monti, ma anche le crisi familiari celate e negate pubblicamente, i weekend sul massiccio dell’Obersalzberg intorno allo chalet della guida dello stato nazionalsocialista.

LA DOMANDA cui sembra cercare di rispondere Crasnianski, avvocata che lavora tra la Germania e gli Stati Uniti e ha conosciuto nella sua stessa famiglia le divisioni e i drammi della guerra, vantando origini sia russe che franco-tedesche, riguarda il modo in cui costoro hanno potuto elaborare le vicende di cui i loro padri sono stati protagonisti. «Perfino mio nonno, ex militare di carriere nell’aeronautica tedesca – confida infatti l’autrice -, si è sempre rifiutato di condividere con me quella fase della sua storia». Allevati in un clima protetto, spesso separato dal resto della società, anche se intriso profondamente dell’ideologia nazista, i figli dei gerarchi non hanno dovuto fare i conti con la realtà del paese che alla fine del conflitto, quando la caduta del Reich ha costretto i loro padri alla fuga o all’arresto e molto spesso a pesanti condanne o alla morte.

La ricerca della verità, o meglio di una consapevolezza dolorosa quanto al ruolo giocato dai propri cari nella guerra e ancor più nella Shoah è poi avvenuto nel contesto di un paese dove una rapida denazificazione ha lasciato il campo ad un tranquillizzante oblio. Così, «di fronte alla congiura del silenzio ordita da una Germania che nel secondo dopoguerra stava tentando di riedificarsi, i discendenti dei nazisti hanno dovuto intraprendere un lavoro tutt’altro che facile sulle proprie persone per riuscire a costruirsi come individui».

IN QUESTO SENSO, la «memoria del sangue» ha seguito diversi percorsi. Se gran parte dei protagonisti ha scelto di non cambiare il proprio nome, «forse perché il cognome che portano è come una presenza che li possiede», suggerisce Crasnianski, le scelte assunte in età adulta indicano i molti modi in cui ci si può porre come soggetti di fronte al potere che il passato esercita sulle nostre vite.

C’È INFATTI CHI, come Gudrun Himmler, figlia del capo delle SS, o Edda Göring, figlia del Maresciallo del Reich, o ancora Wolf Rüdiger Hess, figlio di Rudolf Hess, e Brigitte Höss, figlia del comandante di Auschwitz, non solo non ha mai smesso di rivendicare l’innocenza del genitore, mettendo talvolta in dubbio la stessa vastità del progetto del genocidio ebraico, ma ha continuato a celebrarne con grande affetto la figura fino a cercare di ripercorrerne, in alcuni casi, le orme. In particolare Gudrun Himmler, è diventata un’icona del movimento neonazista cui ha aderito fin dagli anni Cinquanta, impegnandosi in prima persona nella Stille Hilfe, l’associazione che ha sostenuto molti criminali di guerra.

Ma anche chi, come Rolf Mengele, figlio del medico di Auschwitz, ha invece deciso di cambiare il proprio cognome per non tramandare ai figli la vergogna e si è impegnato nei movimenti antifascisti, o chi come Niklas Frank, figlio di Hans Frank, il «macellaio di Cracovia», del padre non vuole nemmeno più sentir parlare. Altri ancora hanno scelto la via della fede. Martin Adolf Bormann junior, figlio di uno dei capi del partito nazista è diventato sacerdote già nel 1958.

MOLTI DI LORO, solo attraverso un lungo processo interiore sono riusciti a separare l’immagine affettuosa di un padre premuroso da quella del lucido criminale responsabile della morte di milioni di persone. Per molti versi il processo inverso che i «buoni padri di famiglia nazisti» avevano compiuto per trasformarsi in zelanti burocrati dell’Olocausto.