Domanda. Ricorda. Il rapporto con la memoria è fin dagli inizi al centro della ricerca di Muta Imago, l’ensemble romano guidato dalla regista Claudia Sorace insieme al drammaturgo Riccardo Fazi.

Una memoria da risalire all’indietro, da ricostituire attraverso i suoi bagliori, ci dicevano in Lev, spettacolo costruito sulla traccia dei diari di un paziente del neuropsichiatra Alexander Lurja, un soldato russo che in seguito a una ferita alla testa aveva perduto la facoltà di ricordare. In una esplosione di suoni e rumori fragorosi e lampi di luce che accompagnavano anche quell’altro sprofondare nell’incubo che era Madeleine (nome femminile che poteva richiamare tanto la protagonista dell’hitchcockiano Vertigo quanto i biscottini proustiani) per arrivare al più recente, bellissimo Displace che diceva di uno spiazzamento, di uno sradicamento nel fragore di una catastrofe che non per caso si scioglieva nel «Remember me» della Didone di Henry Purcell.

Vale la pena ricordarlo, davanti a un lavoro all’apparenza così diverso da quei precedenti qual è Pictures from Gihan, presentato nell’ambito del festival Romaeuropa al teatro del Quarticciolo (ancora oggi e domani, ore 21), borgata cresciuta lungo la via Prenestina fra gli anni trenta e quaranta del secolo scorso che a guardarsi intorno non ha perso il senso della propria resistenza – e anche in questo c’è un briciolo di memoria.

G Poi si sa com’è andata, sulla rivoluzione laica è sceso il velo del fondamentalismo religioso e la condizione femminile, in Egitto, è precipitata agli ultimi posti persino fra i paesi musulmani, come si leggeva nella cronaca di qualche giorno fa.[do action=”citazione”]ihan Ibrahim, nickname Gigi, è una ventenne blogger e attivista socialista celebrata anche su Time per aver cinguettato a caldo, sulla piazza, la rivoluzione egiziana del 2011, quella che aveva portato alla caduta di Mubarak.[/do]
Sorace e Fazi si sono messi sulle sue tracce, interrogando la capace memoria del web per rimettere insieme i frammenti dispersi di quel momento storico, per farne racconto. Immagini, suoni, parole. I tweet di Gihan appaiono su un riquadro in alto, al di sopra dello schermo che si allarga in una sorta di cinemascope, spesso suddiviso in più parti dove immagini diverse sembrano dialogare o scontrarsi. Una vista dall’alto del Cairo, spezzata dalla linea scura del suo fiume, dove una sorta di lente va a cercare i luoghi simbolo di quelle giornate, Heliopolis, Nasser city, l’ormai emblematica piazza Tahrir. Ma lei dov’è?

Le fotografie che galleggiano su internet ce la mostrano sorridente con la kefiah bianca e nera indossata attorno al collo, in mano la cinepresa munita di un grande microfono con cui trasmette il suo sguardo. Ma da lei non c’è risposta ai tentativi di entrare in contatto che partono da qui. E forse proprio questo silenzio sta alla base della scelta dei due artefici di essere in prima persona sulla scena, e loro soli, a differenza delle altre volte. Come se esso richiedesse per contrappeso un maggiore coinvolgimento personale, una più diretta assunzione di responsabilità.

Si muovono nell’oscurità di uno spazio scenico che riproduce idealmente la quotidianità di un loro luogo di lavoro. Due tavoli, delle panche, i computer portatili che volteggiano nelle loro mani, mobili schermi che trasmettono altre immagini ancora. Scrivono lettere. Tracciano con il gesso la linea ellittica di una rivoluzione terrestre che ciclicamente si avvicina e si allontana dal suo fuoco. Dialogano con l’amico che sta al Cairo per organizzare un viaggio estivo nella città. Ed è qui che si produce uno scarto. Perché, l’estate scorsa, qualcosa è cambiato.

Gli egiziani sono tornati in piazza, per riprendersi la loro rivoluzione. Ed è tornata anche Gihan, con i suoi video e i suoi messaggi, anche se ora la festa della rivoluzione vira in maniera decisa verso un cupo clima di guerra civile. Il frastuono degli elicotteri che volano in squadriglia contro un cielo nebbioso butta verso Apocalypse now. Ma non è finzione quel che confusamente vediamo, quel sangue che arrossa il grigiore del quadro.

Il presente erode lo spazio della memoria. Viene da qui probabilmente quel senso di incompiutezza che si avverte nello spettacolo. O di provvisorietà, che è il sintomo più manifesto del presente. Certo ci sono momenti molto belli, in cui si ritrova quella dimensione onirica del teatro, quella vertigine, quella linea d’ombra dietro la quale la supposta realtà appare più incerta e ambigua che caratterizzano il lavoro di Muta Imago. Ma Pictures from Gihan ci dice soprattutto quel che ancora non è, quel che non vuol essere. Le istantanee che arrivano da Gihan, non più mediate da una distanza, non offrono risposte ma moltiplicano piuttosto le domande. Domanda. Ricorda. Quella storia non è finita e forse nemmeno lo spettacolo.