È stata, e per molti è ancora, l’incarnazione perfetta del femminile giapponese, non solo talentuosa e affascinante, ma anche se non soprattutto ferocemente indipendente tanto da diventare un’anomalia nel panorama cinematografico nipponico dalla fine degli anni ’60 in poi. Meiko Kaji è forse l’attrice giapponese piú popolare in Occidente, naturalmente dopo l’eterea Setsuko Hara, musa di Yasujiro Ozu, e molti la conoscono soprattutto per le due straordinarie interpretazioni che hanno fatto la storia del cinema di genere del Sol Levante. La determinata e silente Nami in Female Prisoner 701: Scorpion del 1972 e l’elegante assassina in cerca di vendetta in Lady Snowblood dell’anno successivo.

Nelle ultime settimane Kaji, sia cantante che attrice, è ritornata all’attenzione delle cronache dell’arcipelago grazie al suo nuovo album, il primo dopo decenni d’assenza dalle scene, dopo che di fatto aveva anche diminuito di molto la sua presenza come attrice sul finire dei settanta. L’unicità della sua carriera cinematografica ed in parte anche di quella discografica è esplorata nella sua pienezza da un piccolo ma prezioso volume in inglese a lei dedicato, Unchained Melody: The Films of Meiko Kaji, scritto dall’esperto Tom Mes per Arrow, etichetta cinematografica britannica che ha nel suo catalogo molti dei lavori che hanno reso celebre Kaji.

Mes prende in esame tutta la carriera dell’attrice, dagli inizi negli anni sessanta con la Nikkatsu, dove lavora fra gli altri con Yasuharu Hasebe nella serie Nora Neko Rokku/Stay Cat Rock, dove grazie al suo carisma riesce a conquistarsi il ruolo di protagonista. L’autore poi prosegue con l’analisi delle sue collaborazioni più celebri con Shunya Ito, regista della serie Prisoner Scorpion con cui scopriamo ha un rapporto a dir poco conflittuale e difficile che sfocia quasi nell’odio, e successivamente con Toshiya Fujita, cineasta dietro i due film dedicata a Shurayukihime, la Lady Snowblood tanto amata da Tarantino.

Siamo agli inizi dei ’70, periodo in cui la televisione, portata nelle case di tutti i giapponesi dalle Olimpiadi di Tokyo del 1964, ha di fatto condannato il cinema ad una lenta ma inesorabile fine. L’unica salvezza per le grandi case di produzione sono i film di exploitation, pink ma anche pink violence e chi più ne ha più ne metta. In questa congiuntura storica in cui dalla donna ci si aspettava, come minimo, di spogliarsi, anche solo parzialmente, per attirare gli spettatori maschili catapultati nella capitale da un’ economia che stava trasformandosi, Kaji rifiuta categoricamente di mostrare le proprie grazie e, qui sta la grandezza dell’attrice e della persona, questa scelta controcorrente riesce comunque a portarle un successo da star, anche considerando che incide lei stessa le canzoni che accompagnano i suoi film più famosi.

Proprio questa forza e stoicità nel non piegarsi al momento e alla moda passeggera, fa sì che la sua carriera si sposti verso ruoli poco comodi e diversi da quelli con cui raggiunse il successo. Nella prima metà degli anni ’70 collabora con Kinji Fukasaku e Yasuzo Masumura, registi di grande statura che la faranno maturare come attrice, mentre è del 1974 il suo connubio con due giganti quali Ken Takakura e Shintaro Katsu (Zatoichi) in The Homeless di Koichi Saito, dove si cimenta ancora una volta in qualcosa di diverso. Gli anni ’80 del riflusso e della bolla economica rappresentano per Kaji un’occasione per dedicarsi a progetti televisivi sempre più rari e con questo ultimo album appena pubblicato, anche se gli anni non sono più gli stessi, traspare ancora la stessa forza di cambiare e la stessa bellezza d’animo che hanno sempre caratterizzato il suo percorso personale.

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